In fila al Pane quotidiano. "Venga, è il numero 1000"

Un lettore si è unito alla schiera dei poveri milanesi per raccontare un'umanità variegata e silenziosa: "Ho voluto provare sulla mia pelle cosa significa andare in cerca del pane"

In fila al Pane quotidiano. "Venga, è il numero 1000"

In fila indiana, silenziosamente avanza la lunga colonna di uomini, donne e bambini. Centinaia di esseri umani, accomunati dalla povertà, si dirigono verso il civico 28 di viale Toscana a Milano, dove i volontari del «Pane Quotidiano», da lunedì a sabato distribuiscono generi alimentari ai bisognosi.

Sui loro visi, nei loro vestiti, il mondo intero: italiani, arabi, profughi dell'est, africani, sudamericani e asiatici. Precari, disoccupati, giovani, pensionati, casalinghe e clandestini, sofferenti. Tutti in coda per il cibo, da consumare subito o da portare a casa per sfamare i congiunti. Un popolo generalmente diffidente e taciturno. Persone con una storia, disposte a condividerla solo con chi presta loro orecchio. Come Maria, ucraina, in Italia da 17 anni, senza un lavoro fisso, divorziata e con un figlio al liceo: divide le spese con la madre che lavora come badante, si muove in bicicletta e ha gambe forti. Si rifornisce in viale Toscana o viale Monza, quando è possibile in entrambe le sedi. Anche Giuseppe arriva in bicicletta. Pensionato di origini pugliesi, la sua vita l'ha consumata a Milano. Ha superato gli 80 anni e vive da solo; a chi lo invita a passare avanti risponde che ha tempo da perdere: preferisce stare in piedi all'aperto in mezzo alla gente invece che tornare a casa sul divano. Accanto a lui Antonietta, milanese doc e storica frequentatrice del Pane Quotidiano. Lo aspetta sul viale per fare insieme la fila e racconta di quando, prima della pandemia, c'era meno gente e si riceveva un pacco abbondante.

Alberto invece, inottemperanza all'obbligo vaccinale è stato sospeso dal lavoro. Di fianco alla colonna di gente in attesa si osserva un andirivieni di donne col velo. Discutono animatamente, contrattano e barattano mortadelle e prosciutti. Non mangiano carne di maiale e scambiare i prodotti è un modo per assicurarsi qualcos'altro da portare a casa. Lungo il marciapiede fiorisce un mercato clandestino. Una donna araba appoggiata a un'automobile in sosta smercia pizze surgelate. Con lei un ragazzino di quinta elementare. Altri tranci di pizza si trovano buttati negli angoli dei marciapiedi o nella siepe del vicino complesso universitario, insieme a cartacce e spazzatura varia. Alcuni cibi sono inutilizzabili per chi non ha una cucina o un forno per scaldare gli alimenti e se ne libera subito, regalandoli o lasciandoli per strada. I contenitori per i rifiuti risultano insufficienti a contenere gli scarti delle centinaia di persone che giornalmente transitano sul viale ma alcuni volontari con scopa e paletta ripuliscono regolarmente la strada.

La colonna che avanza incontra Theodor, un ivoriano che cerca di vendere prodotti con l'etichetta della catena di supermercati che li ha confezionati. Spiega che i negozi si disfano della roba in scadenza dopo la chiusura. Basta sapere dove si trovano i loro depositi e si può riempire un borsone a costo zero, però c'è molta concorrenza e chi arriva tardi torna a casa a mani vuote.

Una pattuglia della Polizia locale arriva a sgomberare il mercato abusivo, che inevitabilmente proseguirà non appena si sarà allontanata. La fila avanza, si intravede il cancello d'ingresso e il motto della Onlus: «Sorella, fratello, nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, ne quali sono le tue opinioni». Tutti ricevono un sacchetto. Il ritiro del dono è una liberazione. Qualcuno ha aspettato 40 minuti, altri hanno saltato la fila ma sul viso di tutti c'è soddisfazione. «Finalmente si mangia» esclama chi mi precede. Il volontario che mi consegna il cibo afferma che sono il millesimo della giornata. Lo ringrazio.

Molti verificano subito il contenuto del sacchetto ed estraggono yogurt, riso, merendine e cioccolatini e inizia l'allegro gioco del baratto. Alcuni direttamente sul marciapiede, altri preferiscono un luogo più tranquillo come il parco Ravizza. Io li seguo. Su una panchina, in piedi sotto un albero o sdraiati sull'erba, molti aprono il sacchetto e cominciano a commentare i prodotti, i più affamati iniziano a mangiare. Seguendo l'esempio dei veterani, lo apro anch'io, estraggo una focaccia con i pomodorini e la addento osservando la signora filippina che mi siede vicino.

Mentre la mangio con gusto si avvicinano dei colombi. Cercano cibo anche loro. Sbriciolo pezzi di focaccia e li distribuisco ai volatili: anche loro sono creature di Dio e che c'è più soddisfazione a mangiare in compagnia.

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