Qualsiasi cosa è illuminata, nell'Orangerie della Villa Reale di Monza. Attraversato il roseto del giardino, si entra in questo spazio che un tempo fu un'ampia serra: la raffinata Rotonda settecentesca di Andrea Appiani, all'ingresso, ci introduce in un luogo ora invaso dai colori fluo di Keith Haring, preparandoci a una esposizione dedicata al genio della pop art, scomparso, a soli 31 anni, nel 1990.
«Keith Haring Radiant Vision» si presenta come un percorso in cento tappe, tante sono le opere esposte tra litografie, serigrafie, disegni su carta, manifesti e persino t-shirt: la mostra apre venerdì e sarà visitabile fino al 29 gennaio, tappa italiana di un tour internazionale reso possibile grazie a Pan Art Connections e che qui in Italia vede la direzione artistica di Francesca Biagioli, di Beside Studio. È lei che ci ha guidato in una visita in anteprima tra questi lavori che appartengono a un unico collezionista americano, amico di Haring, che ha preferito rimanere anonimo. Keith Haring (1958-1990), nato in Pennsylvania da una famiglia numerosa e con un papà fumettista che gli mise presto la matita in mano, ha dedicato la sua carriera a sostegno delle cause in cui credeva: la felicità e il benessere dei bambini, i diritti civili, il no al nucleare, il sostegno ai malati di Aids. Credeva in un'arte capace di incidere nella società e per questo fruibile: i poster (l'arte prêt-à-porter che tutti si possono permettere) o i murales su strada sono state le sue modalità preferite d'azione.
A Monza si ricostruisce l'identikit del pop palpitante di Haring, che fu amico di Basquiat e amato da Andy Warhol, il primo a cogliere il potenziale commerciale del suo segno. Haring ha legato tante sue produzioni a prodotti di largo consumo, ha collaborato con varie star dell'epoca come Madonna e con i brand più apprezzati dai giovani (Adidas, ad esempio). A metà degli anni Ottanta, a SoHo, il quartiere degli artisti a New York, ha aperto persino un suo negozio, il mitico Pop Shop, con l'idea di vendere «pezzi d'arte» a portata di tutte le tasche. A rileggere oggi la biografia di Haring, pare impossibile sia scomparso quasi 23 anni fa: è ancora attuale il suo stile, enorme la sua influenza. Dopo la grande mostra alla Triennale di Milano nel 2005 e quella a Palazzo Reale nel 2017, Haring torna a Monza con un'esposizione suddivisa in nove sezioni: racconta quanto l'artista si sia appassionato dello studio dei simboli, arrivando a concepire dei pittogrammi con un lessico visivo riconoscibilissimo (i bambini radiosi, i cani che abbaiano, le figure danzanti, gli smiley con la linguaccia). La sua arte, all'apparenza infantile e giocosa, morde sui temi sociali più urgenti.
Particolarmente significativa la sezione finale, dedicata alle collaborazioni con i giovanissimi che gravitavano attorno ad Haring: spicca «Kalish Suite», una serie di 11 incisioni realizzate con un bimbo delle elementari che veniva sempre al Pop Shop e di cui l'artista aveva colto il talento.
Il pezzo da fotografare? La «Medusa Head», una testa di medusa in bianco e nero di due metri di lunghezza. Rappresenta la più grande stampa mai realizzata da Haring, che qui riversa sul mostro mitologico tutto il suo terrore per l'Aids, colpevole di decimare tanti suoi amici.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.