Snob Society è un libro che Francis Dorléans pubblicò per l'editore francese Flammarion nei primi anni Duemila quando, già cronista mondano per Vogue, si era ormai lasciato alle spalle il giornale dove scriveva e i parties che erano l'oggetto del suo scrivere e aveva aperto a Parigi un negozio d'antiquariato, lì dove il boulevard Saint-Germain incrocia rue du Cardinal Lémoine. Vi potevi trovare mobili liberty, déco, razionalisti, qualche gioiello e molta bigiotteria, affiches, foto incorniciate di beauties fra le due guerre, il tutto immerso in un caos apparente, dove però c'era come filo conduttore il glamour che è proprio di un nome e di un'epoca, la Belle Époque e Cocteau, per intenderci, o Le Boeuf sur le toit e i surrealisti. Lo stesso caos apparente Dorléans lo riversò in quel suo libro, che ora esce in italiano per Neri Pozza (pagg. 527, euro 30, traduzione di Marina Visentin), con un sottotitolo, Ritratti di eleganza, antifrastico se si considera il catalogo di ubriacature, stupri, notti selvagge, matrimoni di interesse, pettegolezzi più o meno volgari, malignità e colpi bassi economici in esso raccontati. Nell'introdurlo, lo stesso Dorléans metteva per certi versi le mani avanti: «Non uno studio sociologico sullo snobismo, ma solamente un libro che parla di snob», tantomeno «un'opera storica», sottolineata dall'assenza di qualsiasi riferimento bibliografico e dalla preoccupante tendenza del suo autore a raccontare i fatti come se vi fosse stato presente.
Da buon francese amante delle buone letture, Dorléans aveva comunque un riferimento obbligato, vale a dire Marcel Proust e il suo À la recherche du temps perdu, e infatti il libro si apre con il mondo ancora proustiano di Madame de Noailles per chiudersi con il ballo proustiano di Marie-Hélene de Rothschild a Ferrières, ma la distanza fra la café society del primo Novecento e la jet society della sua seconda metà era abissale e non c'era più nessuna regina di Napoli che potesse offrire il suo appoggio al barone di Charlus vittima del clan Verdurin: «Appoggiatevi al mio braccio. Voi sapete che un giorno, a Gaeta, ha già tenuto in rispetto la canaglia».
Se volessimo avanzare un paragone culinario, Snob Society è un minestrone, che non è il mio piatto preferito, ma ha i suoi estimatori. Ci trovi Barbara Hutton a fianco di Coco Chanel e di Wallis Simpson, e ci può anche stare, Peter Lawford a fianco di Nancy Mitford, e ci sta un po' meno, Greta Garbo e Evita Péron, e non ci sta per niente. L'andare su e giù nel tempo, tipico di un pendolo un po' impazzito e di un autore che scrive «negato come sono per le date, non sempre ne ho tenuto conto», non aiuta il lettore e spesso la sensazione è quella del déjà vu, aneddoti già sentiti, gossip un po' invecchiato, si tratti delle pratiche sessuali della duchessa di Windsor o della troppe volte evocata amicizia sessuale fra Cary Grant e Randolph Scott. Questo insieme finisce con il rendere quel minestrone un po' brodoso.
Proprio perché costruito su un arco di tempo così vasto, Snob Society ha inoltre un retrogusto che lascia amaro il palato. All'inizio i suoi protagonisti, si chiamino Serge Lifar, dopo Nijinsky la stella dei Balletti russi di Diaghilev, o Natalia Paley, mannequin, attrice, nonché una Romanov e come tale nipote dello zar Nicola II, Porfirio Rubirosa, il playboy per eccellenza, o Dorothy di Frasso, la più americana delle contesse romane, brillano per gioia di vivere, ansia di piacere, voglia di sperimentare, un po' quel «vivere, errare, cadere, trionfare. Ricreare la vita dalla vita» che era stato il leit-motiv del Dedalus di James Joyce. Poi, via via che il tempo passa e che ci si accorge che esiste soltanto una giovinezza, quella fisica, i corpi appassiscono e tranne rare eccezioni (il duca di Windsor conservò la stessa taglia per tutta la vita) si ispessiscono e il divertimento diviene una coazione a ripetere sempre gli stessi gesti e negli stessi luoghi. Alla fine è una tragedia, l'ombra del declino psicofisico che si allunga sempre più e che ha la morte come appuntamento finale. Quando non è così, ci pensano i suicidi o le uscite di scena su macchine lanciate a gran velocità e che si schiantano con il loro guidatore su qualche platano mentre sta sorgendo l'alba.
Se volessimo indicare una data che segna il passaggio, meglio, il cambio di consegne, fra la Snob society e la Jet society, nessuna è più adatta di quel 1951 in cui nel veneziano palazzo Labia si tenne il cosiddetto «Ballo del secolo» organizzato da Charles de Beistegui.
Messicano e miliardario, de Beistegui aveva fatto a tempo a conoscere e a praticare quella che, alla vigilia della Prima guerra mondiale, era ancora la società degli happy few, dei pochi felici. Aveva studiato a Eton, la sua famiglia possedeva un hôtel particulier a Parigi, una delle case di vacanze era a Biarritz, passerà gli anni del conflitto viaggiando per l'Estremo Oriente, Cina, Giappone, India, per poi reinstallarsi nella capitale francese a guerra finita, con la passione per le arti decorative e la rinnovata frequentazione della jeunesse dorée dei cosiddetti «anni folli»: i Noailles, i Faucigny-Lucinge, i Pecci Blunt. Nel suo libro Francis Dorléans non gli presta tutta l'attenzione che meriterebbe ed è un peccato perché de Beistegui è certamente il principe degli esteti di quell'Europa fra le due guerre e nelle sue case, così come nel suo castello di Groussay, mette in scena un'arte di vivere che è solo sua, un gusto che porta il suo nome. Mai collezionista, ma più semplicemente un grande amatore del bello, la sua creatività è effimera e va di pari passo con il fastidio per la pubblicità: era un mondano cosmopolita che disprezzava però la mondanità e preferiva il suo circolo ristretto di amicizie raffinate.
In quel «Ballo del secolo», vietato ai giornalisti, ma che vedrà ammessi tre fotografi d'eccezione, Cecil Beaton, Robert Doisneau, André Ostier, dietro l'attenta regia che anima ogni «quadro vivente» dei suoi 1500 invitati («L'ingresso di Cleopatra e Marco Antonio», «L'ingresso della lezione di ballo», «L'ingresso della commedia dell'arte»...) c'è però la consapevolezza che si sta dando l'addio a quel mondo di ieri che era stato il mondo del suo ideatore.
Beistegui ha ormai sessant'anni e nel celebrare il suo trionfo d'esteta ne sancisce con la sua irripetibilità anche la fine. «Si parla sempre del primo ballo di una fanciulla - scriverà Paul Morand, che di Beistegui è amico e che a palazzo Labia è presente - ma che dire dell'ultimo ballo di un vecchio?».
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