"Il mio romanzo è un anti-Gattopardo dove la mediocrità è ritenuta un blasone"

Lo scrittore palermitano ambienta nella sua città un "catasto" dell'intero immaginario siciliano

"Il mio romanzo è un anti-Gattopardo dove la mediocrità è ritenuta un blasone"

Panormita delle Zone Nuove - il quartiere costruito negli anni '60, via Empedocle Restivo, perché la topografia è importante: «A Palermo ogni piazza, ogni via, ogni strada ha dietro di sé una psicologia, un racconto» - ma romano di vita e di lavoro da sempre, Fulvio Abbate, 66 anni e 26 fra romanzi e pamphlet, nella sua Sicilia torna raramente. «È un luogo mortuario, nocivo, dove è assente la cordialità e l'umanità». Ma se umanamente la malsopporta così tanto, non ne può fare a meno letterariamente. Ed ecco il suo nuovo romanzo, un anti-monumento alla retorica sui miti della Sicilia, di Palermo e del Gattopardo: s'intitola Lo Stemma (La nave di Teseo), lo scrive un romanziere-filosofo discendete del Marchese Ignazio Abbate di Lungarini, omonimo del padre, e riposa in una chiesa palermitana di via Maqueda dal '700 - «Ma tutti gli scrittori sono duchi, marchesi, conti: abbiamo a disposizione le immense baronie dell'immaginazione, dell'estro, del travestimento...» - ed è un romanzo anti-gattopardesco, dal piglio settecentesco, scritto nel miglior barocco linguistico, dove l'espressione è lo stile: efflorescenze sintattiche, giochi retorici, citazioni, amplificazioni, torsioni, la ricerca dell'arguzia, il dono della sorpresa - «Non sono un narratore di storie e di plot, ma di squarci e osservazioni sulle cose» - e il cui bersaglio manifesto, ed ecco che ai valori estetici corrispondono ai valori etici, è la mediocrità come unico vero talento, vincente nella società in cui viviamo.

Non sei un narratore di avventure, ma Lo Stemma è pieno di storie: tanti personaggi che si muovono nella Palermo del 2023, ognuno dei quali cerca di compiere un'impresa, ma destinati tutti a fallire per la loro assoluta modestia.

«Sono personaggi-icona dell'intera mitologia siciliana: la principessa Costanza Redondo di Cosseria, la quale cerca di scoprire chi vuole screditare la sua moralità con messaggi che compaiono sui muri della città, un'aristocratica che però non ha contezza della Storia; poi un monsignore che sogna di diventare un artista d'avanguardia; o Penny Capizzi, di famiglia mafiosa riconosciuta e dall'erotismo spietato; o Vittoria Cilona della Ferla, impegnata a scrivere il seguito del Gattopardo - quell'insostenibile retorica sul mondo del Gattopardo... - e che finirà col vincere lo Strega...».

Ma tu non vuoi fare una parodia del Gattopardo.

«No, quello lo ha già fatto, a suo modo benissimo, Alberto Arbasino con Specchio delle mie brame, nel '74. Il mio romanzo invece è una sorta di catasto che custodisce tutto ciò che la Sicilia ha prodotto sul piano della sua narrazione storica, dal sublime al trash, dai film di Franco e Ciccio al marchese di Villabianca, il Duca di Saint-Simon di Palermo, fino al sempre annunciato e sempre rimandato kolossal di Tornatore sulla misteriosa confraternita dei Beati Paoli...».

Nel romanzo tutti i personaggi sono senza talento, sotto il livello medio d'intelligenza.

«Tranne il cugino della principessa Costanza, la protagonista: il barone Carlo Sicuro di Torralva, lui sì che sa dare il nome alle cose, che sa riconoscere i segni della memoria, che prova a restituire una sostanza alla città e una coscienza all'intero racconto. Ma che alla fine reputa sia meglio uccidersi».

Il talento come un ingombro, la mediocrità come un blasone.

«Sì, certo: la mediocrità è il vero talento. Ma lo è sempre stato: la mediocrità è immanente, appartiene a tutti i tempi della Storia, altrimenti noi non celebreremmo i santi, gli eroi e i geni. Che sono tali proprio per il fatto che tutto intorno prevale la mediocrità. Certo, oggi poi la mediocrità è ancora più esaltata, e premiata. Il mediocre è un liquido che assume voluttuosamente la forma del contenitore, si adatta a tutto, non è conflittuale. E vince. Ciò che è perturbante e rompe gli schemi invece è meglio esiliarlo. E il talento diventa solo l'evidenziatore della mediocrità altrui».

Anche in letteratura?

«Anche in letteratura, certo. L'abilità, l'ingegno, la cultura, lo stesso Sapere, diventano un fastidio là dove si è instaurata la dittatura del giusto mezzo. Il sublime non può convivere con la medietà. Nell'ambito letterario l'enciclopedismo non è ammesso, prevalgono i romanzi di maniera, la scrittura media, la narrativa femminile dolente, il racconto sentimentale o adolescenziale... Anche nell'editoria prevale sempre la via più facile. E in tv è peggio. Se in un talk show citi Gioacchino Murat, re di Napoli e fondatore della massoneria in Italia, il conduttore ha un brivido di fastidio perché lo allontani per qualche secondo dal tema del fondi del Pnrr».

E in politica?

«Lo stesso. Non viene mai cooptato il migliore, ma il mediocre. Colui che si adatta, non colui che scompagina. Il Palazzo ha bisogno di figure gregarie. Le persone sono selezionate verso il basso. Il potere tende a perpetuare se stesso e il timore che l'altro possa essere il Bruto di Cesare o il Galeazzo Ciano del Duce, è sempre in agguato».

Anche oggi?

«Più che mai. La mediocrità della destra la percepisci quando senti parlare di sostituzione etnica o quando scivola nel revanscismo, cercando di ridare legittimità al sentimento che i nonni o i padri della Meloni hanno nutrito nei confronti del fascismo. La mediocrità della sinistra la vedi in una come Elly Schlein che non è in grado di conoscere il dissimile da lei, l'altro da sé, che non sa parlare ai cassintegrati ma solo al giro amichettistico delle chiare valerio. E più in generale, in politica si assiste sempre più a uno schiacciamento del linguaggio verso il basso. Non si parla nemmeno più per slogan, ma per stickers».

Il non sapere più dare il nome alle cose, non avere coscienza della propria storia, cambiare il passato - fosse anche il nome di un locale storico di una città - sono i primi sintomi della caduta dell'Occidente...

«Oh, quella si può intravedere anche da cose apparentemente molto più insignificanti... Un personaggio del romanzo si accorge come dai primi anni Ottanta al secondo decennio del nuovo millennio, a Palermo, nella Felicissima Palermo, le pizze siano platealmente peggiorate in qualità, sapori, materie prime, perfino nell'origano e nel fiordilatte... È qui che comincia il tramonto dell'Occidente. Poi tutto il resto. L'Occidente muore perché è morta la conversazione, perché è morta la curiosità - che per gli Illuministi era il principio della filosofia - perché è morto il valore del Sapere. Due personaggi del romanzo a un certo punto immaginano di affidare a Damien Hirst la ricostruzione della Natività del Caravaggio rubata dalla mafia dall'Oratorio di San Lorenzo a Palermo, nel 1969. Qui siamo oltre la società dello spettacolo, siamo alla società del turismo. Dove, ancora una volta, la mediocrità è ritenuta un blasone».

A proposito di stemmi e blasoni. Un paio di mesi fa in Francia sei stato nominato Officier de l'Ordre des Arts et des lettres.

«Nell'indifferenza generale del mondo culturale italiano... Ma non mi interessa misurarmi con gli intellettuali.

Più che con il Salone del libro di Torino o le dirette di Fahrenheit su RaiTre preferisco misurarmi con i viventi: il mio orgoglio è di aver convinto il pubblico di Forum, la trasmissione di Barbara Palombelli, in un caso di una moglie tradita, che il marchese De Sade non era un mostro, ma un filosofo. E che la virtù è spesso oggetto di sventure... Ecco la vera missione dell'artista. Ci vuole più talento a fare cambiare opinione a un pubblico o a vincere un premio letterario?».

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