La guerra delle spie tra Russia e Occidente all'ombra della crisi ucraina

Che ruolo ha giocato l'intelligence prima e durante la guerra in Ucraina? Pubblichiamo, per gentile concessione dell'autore, un estratto del libro "Spie in Ucraina", in uscita per Ponte alle Grazie

La guerra delle spie tra Russia e Occidente all'ombra della crisi ucraina

All'inizio della guerra in Ucraina i russi davano per scontata una risposta militare inconsistente da parte degli ucraini, destinati a essere sconfitti in una manciata di giorni, ed erano convinti di essere accolti da una forte simpatia popolare. È evidente che i piani erano basati su un quadro informativo sbagliato, come poi è stato sempre più evidente, legato ad errori della loro intelligence.

Ma anche i servizi occidentali condividevano questa ipotesi di rapida sconfitta ucraina, al punto da suggerire a Zelens’kyj, già il 25 febbraio, di abbandonare Kiev e riparare in Polonia, e le stesse ambasciate occidentali si rifugiarono a Leopoli. Dunque, tanto l’intelligence russa quanto quelle occidentali sono partite dallo stesso quadro concettuale sbagliato, e tutti davano per scontata una rapida vittoria russa. Poi le cose sono andate diversamente. E si capisce senza troppe difficoltà che l’errore veniva da una cattiva analisi di intelligence.

Putin può aver fatto i suoi errori, così come Biden, ma è chiaro che si è trattato di errori basati sul quadro informativo servito dai loro servizi. Infatti, se informazioni e analisi dei servizi fossero state corrette, difficilmente i due capi politici avrebbero operato quelle scelte. Dunque, c’è un’evidenza dei fatti che dice della qualità del lavoro dei servizi.

E poi sono venuti nuovi errori altrettanto ricavabili dall’evidenza dei comportamenti: l’intelligence russa ha sottovalutato le sanzioni occidentali, la partecipazione popolare attiva alla resistenza ucraina, l’isolamento internazionale della Russia in sede diplomatica, e ha fatto alcuni disastrosi errori di comunicazione. Le intelligence occidentali hanno dimostrato di non avere una sufficiente rete informativa in Russia o capacità di penetrazione controinformativa. Pertanto non sanno dire nulla di sensato né sulla possibilità (a nostro avviso, per ora improbabile) di un colpo di Stato che destituisca Putin, né sulle dimensioni del dissenso interno al paese; né, tantomeno, sanno fare previsioni sensate sulle intenzioni della Cina (o, almeno, questo è quello che traspare dal comportamento dell’Amministrazione americana).

Quanto alla salute di Putin, si brancola nel buio e sui giornali si leggono notizie per le quali Putin avrebbe le ore contate e almeno una dozzina di gravi malattie. Forse una manovra di propaganda. Forse. Già queste evidenze parlano di una sostanziale inadeguatezza di tutta la comunità internazionale di intelligence (con l’eccezione di quella ucraina, come vedremo) di cui ci tocca spiegare il perché, ma soprattutto che conseguenze avrà, quel che esige uno studio molto attento.

Certamente ci sono ragioni più prossime ai fatti attuali e, in buona parte, di natura più «tecnica» di cui ci occuperemo nella terza parte di questo libro (l’eccessivo prevalere delle fonti tecniche, le infelici soluzioni organizzative adottate da ciascun servizio, il riflesso delle guerre contro il radicalismo islamico e la tendenza alla militarizzazione dei servizi, le politiche di reclutamento del personale, il problema della corruzione, la tendenza a sottovalutare le dinamiche della complessità e altro). Ma, a parere di chi qui scrive, ci sono altre ragioni più profonde, che hanno lasciato un durevole sedimento culturale.

Iniziamo da una considerazione di partenza: pochi hanno notato che questo è il quarto caso da sessantasei anni in cui la Russia invade un vicino per risolvere una controversia internazionale (o anche solo per riaffermare il suo dominio imperiale su un paese vassallo). Lasciando da parte i casi della guerra alla Finlandia e dell’occupazione della Polonia orientale nel 1939, che fanno parte del ciclo della seconda guerra mondiale, e lasciando da parte il complesso delle guerre caucasiche, che rappresentano casi particolari, dove si intrecciano dinamiche interne e dinamiche internazionali, limitiamoci alle invasioni in periodo di pace. La prima volta fu nel 1956 in Ungheria, con 60.000 morti, poi nel 1968 in Cecoslovacchia, dove morti non ce ne furono, perché i cecoslovacchi scelsero di non opporsi con le armi; accadde poi, ancora, nel 1979, in Afghanistan, dove il conflitto si trascinò per un decennio e produsse molte migliaia di morti (10.000 fra i soli russi). Adesso siamo al quarto caso con l’Ucraina. Trascuriamo, perché irrilevante, il caso dell’invasione del Kazakistan durata solo pochi giorni. Non hanno sparato i tank russi, hanno sparato quelli del governo locale, spalleggiati da quelli russi, ma lasciamo perdere.

È abbastanza per notare una dichiarata propensione russa ad aggredire i vicini che è in perfetta continuità con i comportamenti della Russia zarista e di quella sovietica: questo immenso paese che, nella storia, ha «ingoiato» oltre 100 gruppi etnici su un territorio di oltre 20 milioni di km quadrati (caso unico al mondo) e sempre attraverso lo strumento militare. La Russia era ed è un imperialismo a trazione militare. L’Occidente ha sempre rifiutato di fare i conti con questa realtà. Per cui gli occidentali (in particolare gli americani) hanno ritenuto di trovare la radice di questo comportamento nel regime comunista creato dalla rivoluzione bolscevica e hanno creduto risolto il problema con la fine dell’urss e delle vestigia comuniste del regime. Ma oggi, in piena epoca «postsovietica», il problema si ripresenta. L’agire attuale dei servizi americani ha avuto alle spalle questo sfondo culturale.

L’agire dei servizi russi ha avuto alle spalle la cultura dell’imperialismo a trazione militare che non riconosce in nessun modo il principio di indipendenza nazionale. Di qui la nostra scelta di scavare indietro nel tempo, molto al di là del 24 febbraio 2022.

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