Il paradosso della pace

Comandano sempre le armi

Il paradosso della pace

Quello che sta avvenendo in queste ore nel Sud dell'Ucraina, ovvero il tentativo di Putin di occupare tutta la fascia costiera, bombardando Odessa e magari arrivando in Transnistria, cioè fino in Moldavia, dovrebbe aprire gli occhi ai pacifisti di mestiere di ogni colore o a quei filosofi e intellettuali convinti che le trattative e le mediazioni nascano spontanee sotto il pero. Non è così, specie se hai a che fare con un Paese votato all'autocrazia e al totalitarismo come la Russia: con interlocutori del genere, gli equilibri sono determinati dalle armi e le trattative, la diplomazia servono solo a ratificare i rapporti di forza. Lo Zar puntava ad occupare Kiev e a far fuori Zelensky, non ce l'ha fatta per la resistenza dell'esercito ucraino ed ha ripiegato. Stesso copione ora nel Sud del Paese e anche lì l'aspetto militare determinerà tutti gli sbocchi possibili: o Kiev e i suoi alleati bloccheranno l'avanzata russa, o Putin non si fermerà.

Chi fa finta di non vedere questa realtà, chi ficca la testa sotto la sabbia, purtroppo rischia di accorgersene a sue spese. Il conflitto è andato troppo avanti, ha provocato troppi lutti da entrambe le parti per immaginare che l'epilogo possa essere determinato da qualcosa di diverso. Lo hanno capito tutti gli attori: è il motivo per cui i ministri del governo di Kiev hanno chiesto «armi, armi, armi» a costo di sembrare dei guerrafondai; è la ragione per cui, dopo la riottosità iniziale, l'Occidente ha deciso di concederle, comprese quelle di «offesa» e non solo di «difesa». Ed infine è la ratio per cui il Cremlino somma minaccia a minaccia per evitare che gli armamenti provenienti dagli Usa, dall'Inghilterra o dall'Europa possano ribaltare i rapporti di forza rispetto alle previsioni iniziali.

Certo è la sconfitta della diplomazia, ma quando una guerra inizia è difficile che le feluche possano prendere il posto dei generali. Purtroppo, ripeto purtroppo, possono arrivare solo dopo. Quando le armi hanno detto la loro. Ecco perché peccano d'ingenuità - e magari qualcuno sconfina nella malafede - le anime belle quando teorizzano che dare le armi all'Ucraina allontani la pace. Non è così, a meno che non si confonda la pace per la resa di Zelensky e dei suoi. Anzi, paradossalmente, se Putin si rendesse conto che Kiev da pecora inerme da sbranare, come la considerava all'inizio del conflitto, si è trasformata in un avversario temibile dal punto di vista militare, gli passerebbe la voglia di esagerare, di andare avanti, di aggiungere obiettivo ad obiettivo. Confrontarsi sul piano della forza militare, da che mondo è mondo, significa capire, infatti, quanto puoi far male e quanto rischi di farti male. Finché i due valori non sono in equilibrio la via della pace è complicata, tortuosa, ci si muove in tondo senza raggiungere la meta.

Qualcuno potrà pensare che è un ragionamento cinico, che non guarda alle disgrazie, ai morti, alle macerie che provocano i conflitti, ma è la realtà della guerra. E una guerra finisce solo quando entrambe le parti hanno molto da perdere nel continuarla. È il calcolo, giustappunto cinico, che è alla base di ogni tregua, armistizio o pace.

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