A sei giorni dall'inizio dell'operazione Scudo dell'Eufrate non ci sono più molti dubbi sul fatto che l'ultimatum esteso dalla Turchia e dagli alleati americani alle milizie curde in Siria fosse più di una minaccia a vuoto.
Arrivato ad Ankara, alla vigilia dell'intervento dell'esercito turco, il vice-presidente Joe Biden aveva ribadito, con le autorità locali, come l'America considerasse il corso dell'Eufrate il confine che le milizie Ypg non avrebbero dovuto superare.
Sostenuti dagli Stati Uniti nella loro avanzata contro l'Isis verso ovest, i combattenti curdi in Siria avevano già superato questa "linea rossa", conquistando la città di Manbij e cacciando l'Isis dopo una battaglia costata molti caduti. Troppo: sicuramente per la Turchia, ma a questo punto anche per gli Stati Uniti, che hanno chiesto loro di fare un passo indietro o fare a meno del sostegno della coalizione.
Dalle parole di Biden è passata quasi una settimana e sul campo è cambiato molto. I carriarmati turchi hanno acceso i motori e sono entrati in Siria. Con loro centinaia di combattenti riuniti sotto l'ombrello dell'Esercito siriano libero.
Prima hanno strappato Jarablus all'Isis, poi si sono spinti verso sud. Nessun mistero nelle parole della Turchia: l'obiettivo dell'operazione sono tanto i jihadisti del sedicente Stato islamico, quanto le milizie curde.
Una posizione che non stupisce, perché da mesi Erdogan chiede agli Stati Uniti una presa di posizione contro lo Ypg, considerando la lotta contro le milizie un secondo fronte della battaglia aperta nel sud del Paese contro il Pkk, classificato come una sigla del terrorismo, al pari dell'Isis, e ideologicamente molto vicino al gruppo siriano.
Non ci voleva un profeta, insomma, per pensare che si sarebbe arrivati allo scontro tra ribelli ed esercito turco e milizie curde. Ciononostante l'inviato speciale della coalizione, Brett McGurk, ha ribadito questa mattina che la richiesta degli Stati Uniti alle parti in causa è quella di "prendere le misure necessarie per una de-escalation del conflitto e aprire canali di comunicazione" tra le due parti.
DOD: Accordingly, we call on all armed actors to stand down and take appropriate measures to deconflict & open channels of communication.
— Brett McGurk (@brett_mcgurk) 29 agosto 2016
Rapporti pubblicati ieri dall'Osservatorio siriano per i diritti umani parlano di una quarantina di vittime civili, morte a causa dell'avanzata delle forze sostenute dalla Turchia. Le forze armate si sono trincerate dietro una dichiarazione che chiarisce ben poco, commentando che stanno prestando "la massima attenzione perché la popolazione non sia colpita".
"Riteniamo questi scontri, in aree in cui l'Isis non è presente, inaccettabili e fonte di forte preoccupazione", ha detto ancora McGurk, ma i messaggi che arrivano da Ankara sono chiari, con il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu che ribadisce l'intenzione di ricacciare le milizie curde oltre l'Eufrate e parla intanto di una "pulizia etnica" in atto nel nord della Siria.
Accuse che non suonano nuove. Già Amnesty International aveva accusato di "crimini di guerra" i miliziani curdi. E Human Rights Watch aveva parlato di "abusi" nell'enclave di fatto governata dalle Ypg in Siria, in un rapporto che aveva scatenato parecchie polemiche.
Ora le forze sostenute dalla Turchia potrebbero raggiungere Manbij.
Notizie diffuse questa mattina parlavano di rinforzi delle Ypg in arrivo in città. Una voce smentita da un portavoce dei miliziani. Che sia vero o meno, i combattimenti continuano: l'artiglieria, dopo poche ore di pausa, ha ripreso a bombardare.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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