Il dolore, in letteratura, non giustifica nulla, ma quando la crudeltà non si stempera nei cupi rivoli del rancore, quando i sortilegi della vendetta allenano la mente dello scrittore a una spietatezza lucida, marziale, feconda, siamo al cospetto di un'opera rara, sulla soglia del capolavoro. Con la cupa aristocrazia di chi è al di là del giudizio perché ha subito tutto, così, Nadeda Mandel'tam (1899-1980) condanna Nikolaj Tichonov, poeta sovietico di spicco che preferì il partito al talento e fece una discreta carriera come deputato del Soviet: «Tichonov rimaneva sempre fedele a sé stesso e alla causa che serviva La moglie di Tichonov, se non sbaglio, fabbricava giocattoli di cartapesta e lo stesso Tichonov, un tempo vivo, si è oggi trasformato in un fantoccio di cartapesta». Nell'ultima frase è nitido il genio della crudeltà, priva di volgare livore.
Una delle prede predilette di Nadeda era Marietta aginjan, sultana del «realismo socialista», fedelissima a Stalin, che negava l'entità dei Gulag: «Chi viene arrestato? Perché? Hanno scoperto una congiura, hanno arrestato cinque persone ed ecco che questi intellettualucoli cominciano a urlare», urlava, nella sua «beata sordità». Marietta aveva scritto un romanzo sulla vita di Lenin, di plastico successo, e un micidiale manuale sulla Libertà creativa in Unione Sovietica (tradotto da poco dalle edizioni Magog, 2022) in cui teorizzava la coerenza dell'artista di Stato: lo scrittore sovietico doveva obbedire alle attese del popolo; indugiare nel solipsismo, favorire la propria individualità «è la via del codardo», scriveva.
D'altronde, Nadeda non sopportava neppure le evanescenze di Boris Pasternak, la sua ossessione per la figura di Stalin, quella colpevole astrattezza. Ne riconosceva l'autorità poetica, è ovvio, e una generosità istintiva, sbadata, ferale «è l'unica persona che sia venuta a trovarmi, dopo aver saputo della morte di Mandel'tam» ma malsopportava il suo claustrofobico egoismo, la capacità sorniona di saper trattare con il potere. Intorno alla fatidica telefonata di Stalin, ad esempio, si era fatta un'idea precisa: Pasternak aveva perorato con estenuato languore la causa di Osip Mandel'tam, il poeta schiacciato dall'orda del secolo. A Stalin disse che avrebbero dovuto parlare «della vita e della morte». Il capo del Cremlino interruppe la conversazione. Pasternak «rimase scontento del suo colloquio con Stalin» e non capì nulla. Stalin voleva che a quel colloquio «fosse data la più ampia pubblicità», così da ergersi a padre misericordioso, re taumaturgo, «dispensatore di miracoli». Pasternak cadde nel tranello della macchina propagandistica. Nadeda, donna che non dispensa compassione a ettolitri, che non ama le moine dei buoni di cuore, non gliene faceva una colpa. I Mandel'tam, da tempo, erano degli appestati: nessuno tranne la famiglia di Viktor klovskij ospitava «i reietti», per non incorrere nell'accusa di collaborazionismo con i nemici del popolo. Quello era il tempo in cui «la gente veniva eliminata a strati, per categorie: il clero, i mistici, gli scienziati inclini all'idealismo, le persone dalla battuta facile, gli obiettori, i pensatori, i lingualunga, i taciturni, i contestatori».
Nadeda Khazina, figlia di una delle prime donne medico in Russia, di origine ebraica, aveva conosciuto Osip Mandel'tam nel 1919; si erano sposati a Kiev tre anni dopo. Nell'ottobre del 1938 scrive una lettera straziante al marito, «Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, amico mio, mio compagno di viaggio, amata, cieca guida mia Come cuccioli ciechi sbattevamo l'uno contro l'altro, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante e tutta la follia, con la quale scaldavamo i nostri giorni. Che felicità era e come abbiamo sempre saputo che proprio quella era la felicità» (è in: Osip Mandel'tam, Epistolario, Giometti&Antonello, 2020). Il poeta era stato arrestato «per attività controrivoluzionaria» in primavera; Nadeda è certa che non potrà leggere la sua lettera. Prima dell'arresto, il poeta aveva chiesto di portare con sé l'edizione tascabile della Divina Commedia da cui non si separava mai. Morirà il 27 dicembre del 1938, di stenti, di freddo, di nulla e per nulla, in un campo di transito, nei pressi di Vladivostok. «Nessuno lo ha visto morto. Nessuno ha lavato il suo corpo. Nessuno lo ha messo nella bara», scrive la moglie.
Marchiata con lo stigma del paria, latitante, aliena al sistema sovietico, le era stato concesso di tornare a Mosca nel 1964. La sua opera di memoria, Speranza contro speranza, che torna dopo troppo tempo per Settecolori (è il I volume,pagg. 640, euro 28, trad. Giorgio Kraiski; il libro è uscito in origine nel 1971, per Mondadori, come L'epoca e i lupi, ed è e così ripreso da Serra e Riva nel 1990 e da Liberal Edizioni nel 2006; Le mie memorie è stato tradotto da Serena Vitale nel 1972 per Garzanti), converge sul corpo morto del marito. È opera nuziale, questo libro, lavacro del corpo martoriato, puro olio, deposizione nel sepolcro.
Per capire l'importanza di Nadeda Mandel'tam, la donna minuta che ha incarnato le ragioni della dissidenza, vedova di tutte le vedove, dobbiamo leggere il necrologio che le dedica Iosif Brodskij (raccolto in Fuga da Bisanzio, Adelphi, 1987). Aveva incontrato Nadeda nel 1962, a Pskov, su intercessione di Anna Achmatova. «Lo sparuto corpo rattrappito sotto lo scialle, le mani, l'ovale della faccia cinerea, i capelli grigi, anch'essi cinerei... Nadeda Mandel'tam sembrava un avanzo di un grande incendio, sembrava una minuscola brace che brucia se la tocchi». A Bruce Chatwin, che le aveva fatto visita nel 1978, aveva confidato che lo scrittore russo del momento, Solenicyn, «quando pensa di dire la verità, dice le falsità più tremende». Il racconto di Chatwin vira nel bianco «nevicava fitto», ricorda, e «sulla parete di fronte al letto c'era una tela bianca il quadro era tutto bianco, bianco su bianco» mentre quello di Brodskij si concentra sull'ombra, sull'oscurità. Bianco e nero Nadeda attira gli estremi e gli estremisti.
Benché Speranza contro speranza nella primavera del 2023 è prevista, sempre per Settecolori, la pubblicazione del II volume sia considerato un classico tra i libri della dissidenza sovietica, insieme a Vita e destino di Vasilij Grossman, Arcipelago Gulag di Solenicyn e I racconti della Kolyma di Varlam alamov, è qualcosa d'altro, di diverso. Il libro, cioè, non è alta lamentazione, non è dettato nel gergo della reprimenda, della denuncia civica. Il libro di Nadeda Mandel'tam è importante perché ha il rigore di una poetica, è dedito al verbo prima che al grido. Tutta la storia degli orrori sovietici, le reiterate delazioni, i virtuosismi dei vili e dei lacchè, perfino l'onnipotenza di Stalin sono nulla al cospetto del poeta.
«La poesia è il potere, disse Mandel'tam alla Achmatova, a Vorone, e lei annuì chinando il lungo collo. Confinati, malati, poveri e perseguitati, non volevano rinunciare al loro potere Osip Emil'evi continuava a ripetere: Se uccidono in nome della poesia, vuol dire che le tributano l'onore e il rispetto che merita, vuol dire che la temono e quindi la poesia è il potere». Il libro di Nadeda ribadisce la statura sacrale della poesia, riconsegna lo scettro e la stola al poeta. Insegna che il poeta non muore mai.
«Se una cosa mancava a Nadeda Mandel'tam, era l'umiltà era
terribilmente ostinata, categorica, capricciosa, sgradevole, fissata», scrive Brodskij. Per fortuna.Capriccio e ostinazione consegnano agli scritti di Nadeda una perentorietà impenitente, che non ammette chiosa, non consente resa.
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