Da Lingard a Martina, gli eroi silenziosi che hanno difeso la verità sulla pandemia

A quasi quattro anni dal Covid, ciò che sappiamo su mascherine, lockdown e piano pandemico è merito di poche persone che così hanno sacrificato lavoro e reputazione

Da Lingard a Martina, gli eroi silenziosi che hanno difeso la verità sulla pandemia

«La più grande tragedia di questi tempi non è il clamore chiassoso dei cattivi ma il silenzio spaventoso delle persone oneste», scriveva sessant’anni fa Martin Luther King. Se oggi possiamo ricostruire documentalmente la gestione «caotica e creativa» della pandemia lo dobbiamo ad alcuni eroi che hanno preferito urlare la loro indignazione, scrivendo nero su bianco ciò che sapevano e avevano visto, a un manipolo di silenziosi cittadini che hanno cercato e raccolto i brandelli di verità che si trovavano davanti, hanno condiviso il loro sapere e le loro informazioni, hanno dato forma e sostanza a un puzzle complicatissimo di cui nessuno aveva (e ha ancora) tutti i pezzi.

Ieri il Gip di Roma Anna Maria Gavoni ha disposto l’imputazione coatta per «omessa definizione dei piani di dettaglio» e «omissione o rifiuto di atti d’ufficio» alcuni manager della Sanità. La loro colpa sarebbe quella di non aver aggiornato il Piano pandemico (nato su disposizioni dell’Oms dopo l’epidemia di Sars e fermo al 2006), unico e solo «manuale d’istruzioni» possibile per destreggiarsi nella gestione dell’emergenza. Ci sono l’ex numero due dell’Oms Ranieri Guerra, già direttore generale del ministero della Salute - che pure aveva avvertito l’allora ministro Beatrice Lorenzin della necessità di farlo e presto, prima di andare all’Oms - e per i manager della Sanità Maria Grazia Pompa, Giuseppe Ruocco e Francesco Maraglino. Secondo le raccomandazioni delle istituzioni europee esisteva un’«urgenza sostanziale» di redigere questo atto.

C’è un nesso tra questo mancato aggiornamento e l’incidenza della mortalità che in Italia è stata ben più alta che altrove nonostante due lockdown, il green pass e l’obbligo vaccinale? Sarà il processo a stabilirlo. Certo è che il ministero della Sanità ha imbrogliato l’Oms, falsificando i test sul reale stato di preparedness italiana. Non è un caso se siamo stati il cluster d’Europa secondo la prestigiosa rivista «Lancet», se dal nostro Paese sono usciti malati asintomatici o meno che hanno contagiato gli altri Paesi Ue: «La decisione di governo e Regione Lombardia di non chiudere Alzano e Nembro (...) è responsabile dell’esplosione del contagio nella Bergamasca (...) e poi in tutta Europa». Lo dicono le statistiche dell’Ecdc (European centre for disease prevention and control), l’ente europeo di prevenzione e controllo delle malattie, che mostravano inequivocabilmente come in 16 Paesi europei su 27 i primi casi di Covid-19 erano «importati» dall’Italia. «Se l’Italia avesse applicato il Piano pandemico avremmo avuto molti meno morti», aveva già detto il presidente della fondazione Gimbe Sergio Cartabellotta, ascoltatissimo esperto su curve e contagi. Nessuno ha mai pagato per questa scelta «politica» costata, lo dice Gimbe, migliaia di morti.

Lo ha detto il gip romano, per capire la verità bisogna ripartire dall’inchiesta della Procura di Bergamo sulla gestione del Covid poi trasferita per competenza a Roma. Un lavoro monumentale che si è arenato sul reato di mancata prevenzione e sull’indimostrabilità del nesso eziologico tra mancata Zona Rossa della Bergamasca, epicentro della pandemia - su cui c’è il segreto di Stato, e qualcuno dovrebbe spiegarci il perché - e aumento della mortalità. «Il primo andava deciso subito», ha detto di recente in commissione Covid il numero uno Gimbe, non con quel balletto di proclami che agevolò la diffusione del virus perché nottetempo in migliaia si spostarono dal Nord a Sud e viceversa. «Se avessimo avuto scorte di Dpi sicuramente la mortalità sarebbe stata abbattuta. Ma non c’era nulla», ripete Cartabellotta.

È grazie al lavoro degli inquirenti guidati dal 2020 al 2023 da Antonio Chiappani e dal report della Guardia di Finanza se oggi abbiamo ricostruito tutte le fasi della gestione della pandemia - con intercettazioni, trascrizioni di mail e messaggistica eccetera - che oggi andranno «opportunamente vagliati». L’inchiesta di Bergamo a sua volta è nata dal ritrovamento del report Oms di Francesco Zambon, uno scienziato che per aver messo nero su bianco le criticità italiane e la confusione dietro alcune scelte improvvide o semplicemente sciocche - come poi si scoprirà essere stata la terapia domiciliare «paracetamolo e vigile attesa» o le mancate autopsie, il limite di persone ai funerali, la messa di Natale alle 22 «che tanto Gesù non si offende» (sic) - di fatto è stato fatto fuori dall’Organizzazione mondiale della sanità, pagando un prezzo altissimo per il suo coraggio. Non avremmo mai saputo nulla di questo report se non fosse stato per l’ex consulente delle vittime della Bergamasca Robert Lingard, che proprio nel giorno dell’insediamento di Chiappani fece una conferenza stampa per presentare il documento scritto da Zambon, finito anche sul quotidiano britannico The Guardian e fatto sparire nel giro di 24 ore su pressioni documentate dell’esecutivo perché denunciava sia la mancata applicazione del piano pandemico sia la gestione «caotica e creativa» della pandemia. Contro Zambon e le sue coraggiose testimonianze si è scatenato un fuoco di fila che l’altro giorno lo ha visto vincitore assieme a Report, per una puntata che Guerra considerava diffamatoria, così come è successo in un filone padovano che ha riconosciuto le ragioni del ricercatore. È stato Giulio Valesini - che sulla pandemia ha scritto un libro - a far sapere al Giornale che il tribunale di Roma aveva dato loro ragione e aveva condannato il manager al pagamento delle spese processuali.

E dire che qualcuno aveva anche cercato di imbavagliare la contronarrazione portata avanti sul Covid. Non è ancora chiaro se c’è un filo rosso che unisce il dossieraggio portato avanti durante la pandemia contro giornalisti, blogger e influencer italiani e stranieri e l’attività portata avanti da possibili servitori infedeli dello Stato su cui indagherà la Procura di Roma dopo quella di Perugia che ha perso la competenza sul caso dell’ex ufficiale Gdf Pasquale Striano. Altro materiale per la commissione Covid. Peraltro lo stesso Chiappani, in un’intervista al Giornale alla vigilia del suo pensionamento, aveva chiesto che il fascicolo d’indagine - finito in un nulla di fatto al tribunale dei ministri di Brescia che aveva assolto l’ex premier Giuseppe Conte e l’ex ministro della Salute Roberto Speranza - si era detto disponibile a fornire alla commissione d’inchiesta Covid tutto il materiale probatorio raccolto dai suoi inquirenti. Motivo in più per ascoltarlo.

Se dobbiamo a uno steward di Ryanair il video e le foto dei camion per le vie di Bergamo carichi dei nostri morti su cui qualcuno vorrebbe speculare beccandosi una denuncia, bisogna ricordare il decisivo lavoro del pool di legali delle vittime della Bergamasca, che esultano per il rinvio a giudizio che restituisce a loro avviso «rispetto a centinaia di familiari delle vittime, i cui corpi accatastati non hanno neanche avuto una sepoltura degna», dicono il pool di avvocati composto da Consuelo Locati, Alessandro Pedone, Luca Berni, Piero Pasini, Giovanni Benedetto ed Elisabetta Gentile. La frattura tra i legali e il loro ex consulente Lingard è finita in tribunale ed è purtroppo insanabile, e questo rischia di sporcare il lavoro di ricerca della verità, che l’esperto di public policy ha portato avanti con il sostegno e il ringraziamento anche dell’attuale capogruppo Fdi Galeazzo Bignami, con cui è stato sempre in contatto quando curava l’interlocuzione con la politica per conto degli avvocati, come conferma una missiva tra loro ormai diventata pubblica in cui il parlamentare definisce il suo lavoro «l’operazione di trasparenza più importante degli ultimi decenni in Italia, di cui il Paese dovrebbe ringraziarti».

Parole che andrebbero indirizzate anche a un altro servitore dello Stato, il funzionario delle Dogane Miguel Martina, un whistleblower che ha subito dai suoi superiori un mobbing di quattro anni, certificato di recente dal tribunale di Roma. La sua colpa è quella di aver rivelato già nel marzo del 2020 che le mascherine che arrivavano dalla Cina, allegramente sdoganate anche se col marchio Ce contraffatto, potevano essere dannose e pericolose. Lo hanno ostracizzato, hanno provato a danneggiare la sua reputazione, lo hanno allontanato dal suo lavoro, facendogli terra bruciata intorno, con l’Anac che anziché difenderlo è rimasta colpevolmente immobile. La sua tesi universitaria del febbraio 2021 pubblicata dall’Università di Urbino dal titolo «Effetti collaterali dell’ emergenza Covid 19: le deroghe per l’acquisto delle mascherine e dei banchi a rotelle» contiene in 62 pagine tutte le spiegazioni tecniche del perché «alcuni provvedimenti amministrativi che hanno disciplinato le materie delegate dai Decreti legge emanati, infrangendo norme europee e nazionali sulla sicurezza dei prodotti, non solo non hanno protetto la collettività da rischi ma hanno, addirittura, aumentato i rischi che si intendevano limitare». Un manuale finito in tutte le Procure che indagano sulla pandemia.

Sono dunque già quattro anni che sappiamo che le mascherine cinesi strapagate sebbene pericolose hanno ingrassato e non poco i vari mediatori di Pechino, cosa che l’audizione di Domenico Arcuri in commissione Covid non ha affatto chiarito. L’ex commissario all’Emergenza Covid parlerà a febbraio, se non prima come chiede Italia Viva con Raffaella Paita, ma ciò che non potrà smentire è che l’acquisto di mascherine dalla Cina con marchio Ce contraffatto era necessaria dall’assenza di adeguate scorte che invece erano previste dal Piano e su cui l’Italia ha mentito. Se ci fosse stato un Piano pandemico vigente, anche se non aggiornato, quel documento avrebbe potuto imporre ad alcune aziende (come ha fatto successivamente Fiat) la riconversione industriale e la cessione delle mascherine allo Stato a un prezzo calmierato.

«L’avere derogato a norme del nostro ordinamento poste ad argine per difendere la nostra salute e la nostra sicurezza ha determinato la circolazione di decine (se non centinaia) di milioni di dispositivi rivelatisi addirittura pericolosi (poiché del tutto inidonei a proteggere la salute delle persone) esponendo ad un rischio addirittura maggiore di contagio in considerazione dell’abbassamento dei livelli di prudenza comportamentale di chi le ha indossate, affidandosi alle iniziative intraprese dalle autorità amministrative scese in campo nell’ emergenza Covid», scrive ancora Martina nella sua tesi. Un dato confermato dall’Inail qualche giorno fa proprio davanti alla commissione Covid presieduta da Marco Lisei, quando ha denunciato l’enorme incidenza nella mortalità Covid del personale medico-infermieristico che con quelle mascherine ha combattuto (e perso) una guerra di trincea in corsia, con una mortalità e morbilità tra i più alti dell’Occidente con 380 medici e 90 infermieri morti nei primi quattro mesi della pandemia e quasi 14mila infermieri su circa 260mila ammalati. Altro che la triste difesa di Giuseppe Conte sparata in faccia al familiare di una vittima in commissione Covid, dove l’ex premier è chiaramente in conflitto d’interessi: «Da quando è iniziato il Covid quasi mezzo milione di sanitari è stato contagiato, centinaia di medici sono morti per curare anche i suoi familiari». Già. Peccato che il nostro personale sanitario abbia affrontato la pandemia a mani nude perché i pochissimi Dpi e pochissime le mascherine disponibili erano state follemente regalate alla Cina dall’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio a favor di telecamere, a Bergamo i medici visitavano a domicilio pazienti ormai spacciati indossando calzari e buste della spazzatura.

È a questi eroi silenziosi che oggi, a quasi quattro anni di distanza dall’inizio ufficiale della pandemia, che dovrebbe andare il nostro

pensiero. A chi è morto cercando di salvare gli altri, a chi ha rischiato il lavoro e la reputazione per difendere una verità che oggi lentamente sta cercando di risalire dall’oblio in cui qualcuno l’avrebbe voluta ricacciare.

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