Nell'hotel-rifugio sono tutti clandestini ospiti dell'apocalisse

Un romanzo del 1967 che va oltre l'attualità, portandoci in un futuro che è dietro l'angolo

Nell'hotel-rifugio sono tutti clandestini ospiti dell'apocalisse

Il 2 luglio 1968 viene firmato il «Trattato di non proliferazione nucleare». A sottoscriverlo sono Stati Uniti, Unione Sovietica e Gran Bretagna in qualità di Paesi possessori di armi nucleari e altri 40 Paesi non possessori di armi nucleari. Il patto in soldoni è questo: A) chi ha quelle armi da prima dell'1 gennaio 1967 se le tiene; B) chi non le ha non può produrne; C) niente compravendite. Attualmente i Paesi firmatari sono 191. E qui finiscono le buone notizie, perché oggi nel mondo intero, cioè uscendo dai confini dei firmatari di quel trattato, i produttori sono 8 (su Israele persiste un punto di domanda bello grosso, e anche un punto esclamativo), ai quali vanno aggiunti sia i 4 che le avevano (e che difficilmente le avranno riconvertite in elettrodomestici), sia, in barba al punto C, i 6 (Italia compresa) che stanno per così dire in panchina, pronti a entrare in gioco in virtù della cosiddetta «condivisione nucleare», ovvero la famosa «deterrenza» tanto cara ai guerrafreddafondai: le abbiamo, sì, ma non abbiamo così tanta voglia di usarle...

Siccome i bravi scrittori a volte sono anche, involontariamente, dei profeti di sventura, un anno prima delle illustri firme al «Trattato di non proliferazione nucleare» ci fu la firma del danese Sven Holm (1940-2019) sul romanzo Termush, ora disponibile per la prima volta in italiano (ilSaggiatore, pagg. 175, euro 17, traduzione di Eva Kampmann, il titolo originale è Termush, Atlanterhavskysten, cioè Costa atlantica). Definirlo post apocalittico sarebbe riduttivo, perché, volendo usare il latino, è un romanzo in bello apocalittico: qui la guerra (o l'incidente, fa lo stesso) è ancora in corso. E per due motivi: da un lato il contagio che viaggia velocissimo e dall'altro le barriere, fisiche e mentali, che separano chi sta dentro da chi sta fuori. Dentro e fuori che cosa? L'albergo di extra lusso «Termush», dotato di tutti i comfort possibili e immaginari in tempo di pace, incluso uno yacht che sonnecchia lì vicino in rada, sul mare, e poi di rifugi antiatomici sotterranei, di medicinali, comprese le indispensabili compresse di iodio, di filtri per l'acqua, di un'infinità di provviste alimentari, di due medici, di «dosimetri» e di «intensimetri» per misurare il livello di radiazioni, di addetti alla sicurezza e, per quanto riguarda l'esterno dell'albergo, fuori dal grande parco che lo circonda, di un gruppo di soldati e di una squadra di esploratori. Procurarsi un posto al Termush, insomma, è (anzi era) come prenotare un posto in Paradiso, quindi costa(va) un sacco di soldi.

L'anonimo Narratore che scrive in prima persona non è certo un Elon Musk ante litteram, ma un semplice professore universitario, convinto di aver fatto il migliore, nonché ultimo investimento della vita. E al lettore basta arrivare alla seconda pagina per annusare un'aria da Berghotel Schatzalp, il sanatorio della Montagna incantata di Thomas Mann. Scrive il professore nel suo diario: «Il nostro stato somiglia a una cupa convalescenza tra la malattia e il suo esito fatale». Una convalescenza che non conduce alla guarigione, ma che allunga l'agonia... Ora che l'Uomo ha rotto il guscio di quell'argenteo uovo che era il mondo, l'angoscia e l'ansia dei sopravvissuti del Termush è accresciuta proprio dal loro stare nel guscio dell'albergo: «Ma forse ci sentiamo impotenti anche perché le cose hanno conservato il loro aspetto esteriore, adesso che la catastrofe è avvenuta. Senza rendercene conto abbiamo confidato in quella catastrofe convinti che avrebbe tradotto la nostra paura in realtà offrendo immagini forti quanto quelle di cui la nostra fantasia aveva bisogno prima. Invece, dopo la permanenza nei rifugi sotto l'albergo siamo riemersi e abbiamo trovato un mondo meno diverso da quello che avrebbe lasciato dietro di sé un temporale estivo. E adesso che abbiamo un gran bisogno di fantasia e di perspicacia, nessuno di noi sembra avere le forze per soddisfarle».

Sarebbe sufficiente questa riflessione, a Sven Holm, per costruire la base di un grande romanzo sui tormenti esistenziali dei sommersi non salvati (e non salvabili), per dirla alla Primo Levi, dell'orrore nucleare, di questa Shoah tecnologica. Ma l'autore va oltre: apre il Termush ai migranti feriti e deformati che vagano come zombies, ai clandestini privi di documenti d'identità e di identità. Del resto, anche senza di loro basterebbe poco per diffondere nell'albergo il contagio, magari quella fruttiera lasciata da una inserviente accanto alla tuta, non ancora decontaminata nello «stanzino di lavaggio», di un addetto alla sicurezza che era uscito in ricognizione... Mentre gli ospiti paganti maturano persino una parvenza di ottimismo («Da qualche parte nei rifugi sotto di noi è conservata la parte malata, l'arto amputato che garantisce la salute al resto dell'organismo») e uno spirito di corpo («Nemmeno i rifugi riuscivano a cancellare la recente solidarietà nata tra gli ospiti, il loro senso di appartenenza a un popolo»), ecco materializzarsi lo spettro dell'invasione degli «estranei». Tuttavia, la parola «nemico» compare soltanto tre volte, di cui due nella terz'ultima pagina, quando i termushiani hanno deciso di intraprendere la loro «seconda navigazione» in senso platonico, usando il loro yacht per lasciare il mondo sensibile e andare incontro a quello sovrasensibile.

Chiudiamo con una curiosità inquietante. Nel 2023 Termush venne pubblicato dall'editrice britannica Faber. Che per lanciare il libro creò... un falso albergo Termush, con un sito (faber.co.uk/hotel-termush) tutt'ora visitabile. Ci troviamo la mission: «Il nostro obiettivo è offrire una via di fuga dalle pressioni della vita moderna nel nostro rifugio costiero». Vi si parla di «pacchetti di sopravvivenza di lusso». Ci sono le recensioni dei clienti, di cui una presa quasi letteralmente dal libro: «Il giorno in cui siamo usciti dai rifugi, quattro persone sono state ritrovate morte sulle scale dell'hotel». Ci sono anche gli iconici cactus che Holm cita.

C'è la foto di un tale con la maschera a gas. E se clicchi sull'immancabile «Read more» finisci nel sito di Faber. Sapevamo che la traduzione italiana di «british humour» è «spirito di patata», ma questa volta non c'è proprio nulla da ridere.

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