No, puniamo i tifosi

Ero all’Heysel, quella notte, inviato del Corriere della Sera. Ricordo tutto, più di quello che nella fretta potei scrivere. Ricordo la fila di cadaveri, trentanove, coperti in qualche modo da lenzuoli e coperte insanguinate. Quasi tutti sgozzati, uccisi dalla folla che, per sfuggire alla pazzia dei tifosi del Liverpool - i quali caricavano brandendo bottiglie rotte -, premeva contro chi non aveva via di fuga e moriva soffocato contro le reti metalliche. Ricordo pure le manganellate della polizia belga, ne ho prese un po’, divise equamente con il collega Franco Ordine de il Giornale. Avevano perso la testa anche gli agenti, comprensibile. La nostra rabbia sparì in breve tempo insieme con i bernoccoli. L’unica cosa che non ricordo è d’aver visto dentro e fuori da uno stadio un simile orrore.

Ovviamente, è impensabile accostare la tragedia di Bruxelles con quanto è accaduto ora a Roma. Due soli sono i punti in comune: i tifosi inglesi, pieni di birra e follia; le accuse alla polizia. Anche allora gli agenti finirono tra gli imputati. E a ragione. Avrebbero forse potuto evitare quella mattanza, di certo sottovalutarono quanto stava per accadere. Ma a nessuno venne in mente di denunciare i tutori dell’ordine per qualche manganellata in più magari calata sfortunatamente sulla testa di chi colpe non aveva.

Nella vicenda dell’Olimpico i punti rimangono due: i tifosi inglesi, ancora una volta pieni di birra e alcol, e le accuse alla polizia. E stupisce che un giornalista britannico attento come Alex Montgomery metta, insieme con il suo governo e con i media d’Oltre Manica, sullo stesso piatto della bilancia - la bilancia della giustizia - hooligans e agenti. Vogliamo denunciare le forze dell’ordine per non aver saputo valutare, controllare e gestire i più scatenati e pericolosi tra i tifosi del Manchester? Non ci sono stati abbastanza controlli? Nessuno, ai cancelli di ingresso, è stato capace di dividere gli alticci dai sobri? Parliamone. Visto quanto accade dentro e intorno ai nostri stadi, sicuramente ci sono buchi vistosi negli apparati preposti alla sicurezza. Ma da qui a far nascere un caso diplomatico tra Inghilterra e Italia mi pare si sia perso il senso della ragione.

Montgomery, preciso come una freccia, colpisce il bersaglio quando ci rinfaccia che a casa sua - anche dentro gli stadi - c’è la certezza della pena. Chi sbaglia paga. Ha ragione da vendere. Nello strano Paese che è l’Italia, tribune e curve dei campi da calcio sono luoghi dove si può delinquere senza rischiare condanne. Le denunce vengono archiviate. E nei rari processi il fattore tifo diventa un’attenuante, un’automatica riduzione della pena, quando viene inflitta. Nessuna novità, cose dette e ridette. Ma nulla mai è cambiato. Che gli inglesi in materia siano più seri già lo sapevamo senza che ce lo ricordasse la stampa britannica. Comunque, touché.

Ma al gioco al massacro contro la polizia non ci sto a prendere lezioni. Purtroppo, siamo già maestri. Ad anni dagli scontri di Genova, durante il G8, rimangono solo accuse e processi agli agenti e ai carabinieri. Nessuno pare ricordarsi di che cosa furono capaci i «no global», di chi scatenò una vera e propria battaglia, dei danni che subì la città e che nessuno ha mai risarcito.

Una parte di Italia ha fatto addirittura vittima e martire Giuliani, morto mentre tentava di ammazzare un militare lanciandogli addosso un pesante estintore, e ha portato sua madre - non si capisce per quali meriti - in Parlamento. Vogliamo riprovarci per una stupida partita di calcio? No, sarebbe troppo.
Nicola Forcignanò

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