Sono anni, e non pochi, almeno una cinquantina, certamente a partire dal Concilio Vaticano II e dalle discussioni teologiche che lo precedettero e lo accompagnarono, che si discute del celibato dei preti, della sua legittimità e della sua opportunità. Se debba esserci o no, se non sia una inutile limitazione, se la sua eliminazione, o almeno la sua non obbligatorietà, non potessero essere un modo di rimpolpare gli esangui seminari e le diocesi nonché le parrocchie. Si discute sul fatto che l’obbligo del celibato dei preti non sia un precetto legato direttamente ai vangeli ma una pratica introdotta dalla Chiesa e che, quindi, sarebbe un obbligo assolutamente rimovibile, non fondamentale.
Ultimamente, anche grazie ad interventi autorevoli come quello del cardinale Carlo Maria Martini, il tema è tornato al centro dell’attenzione. Lo si è collegato ai comportamenti pedofili di preti all’interno della Chiesa cattolica. Quasi come a voler sostenere che se non ci fosse quello, il celibato, forse ci sarebbe meno anche questa, la pedofilia. O forse non ci sarebbe per niente. Questa tesi non trova riscontro nei fatti, nelle statistiche che registrano moltissimi degli abusi pedofili all’interno delle mura domestiche o comunque commessi da persone con una «normale» vita di relazioni sessuali. Ma a parte queste considerazioni a noi interessa concentrare l’attenzione su un altro aspetto.
La discussione attorno al celibato parte da un presupposto, secondo noi, errato. Il celibato - si argomenta - è una scelta oggettivamente difficile, innaturale. Conseguentemente, i preti diminuiscono sempre di più perché in pochi se la sentono di abbracciare questa scelta di vita e quelli che la abbracciano poi non riescono a sopportarla e, quindi, arrivano a compiere atti degenerati. Siccome la Chiesa non vive senza i suoi ministri occorre eliminare il celibato, o non renderlo obbligatorio, per far sì che cresca il numero dei preti e diminuiscano le degenerazioni.
Però la domanda vera, radicale, non rinviabile, che dobbiamo porci è: ma il prete non celibe ha lo stesso senso? Mantiene la stessa caratterizzazione spirituale e profetica? E se ragionassimo in modo diverso: se partissimo - cioè - dalla indissolubilità tra prete e celibato stesso?
Perché in diverse forme, attraverso diverse strade, all’uomo del XXI secolo continua a interessare Dio? Forse anche perché non è catturabile, non è dominabile, non è completamente comprensibile, non rientra nelle categorie della nostra ragione, eccede rispetto ad esse. Perché tra i suoi attributi ha l’ineffabilità e l’incomprensibilità. Lo sosteneva già San Tommaso d’Aquino: proprio perché Dio è incomprensibile l’uomo è affascinato da Dio, irrimediabilmente attratto da qualcosa/qualcuno che lo supera e che l’uomo non potrà mai diventare. Se Dio fosse qualcosa a portata di mano come, grossomodo, tutto ciò che ci circonda perderebbe questo suo lato interessante per l’uomo, sarebbe troppo simile all’uomo stesso per interessarlo al pari di qualcosa che, invece, è assolutamente dissimile da lui.
L’interesse che può suscitare il prete, nel mondo di sempre, non è simile a quello che suscita l’ipotesi che esista un Dio? Non è legato anch’esso a una figura umana che in sé porta il segno dell’incomprensibilità di una scelta che può essere solo legata a un mistero, quello di Dio, appunto? Siamo certi che un uomo come tutti noi potrebbe destare lo stesso interesse per l’uomo? Siamo certi che un prete non celibe porterebbe con sé una pari carica simbolica e profetica? Se qualcosa o qualcuno è uguale a tutto il resto perché dovrebbe destarci un interesse maggiore di tutto il resto? Il prete è un ministro in terra dell’ineffabile, dell’incomprensibile. La forma celibataria richiama questa dimensione. Sarebbe facile farla sparire. Non è meglio una Chiesa con meno preti ma con preti che siano faro dell’infinito, anche attraverso il segno del celibato?
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