Obrador, il candidato messicano «anti» che fa guerra agli Usa e al Padreterno

Testa a testa nei sondaggi per la presidenza tra il populista di sinistra e il conservatore Felipe Calderón

Alberto Pasolini Zanelli

da Città del Messico

Alcuni sondaggi dicono + 3. Altri - pochi - arrivano a + 7. Altri ancora, basandosi sulla tendenza dei numeri più che sulla loro somma, lo danno invece soccombente. La pensano così, ad esempio, i bookmaker, pronti a remunerare chi punti sulla elezione a presidente del Messico di Andrés Manuel López Obrador e non chi punti su Felipe Calderón. Gli «esperti», che non mettono in gioco pesos ma la propria reputazione, insistono sul pareggio e, domenica, vinca il migliore.
Sarebbe, dunque sulla base di queste cifre, l’elezione più normale del mondo. È ormai la regola, non più l’eccezione, che le campagne si concludano in volata e gli elettori si dividano quasi esattamente fra i due contendenti maggiori, lasciando al destino, o alla paglia più corta, il compito di sceglierne uno. Lo abbiamo visto di recente in Ungheria, poco prima in Italia, l’anno avanti in Gran Bretagna, due volte su due in Germania, due su due negli Stati Uniti. Ma in Messico non è mai successo. In Messico, tranne l’ultima volta, di candidati ce n’era in pratica uno solo, designato, almeno formalmente, dal predecessore, la cui indicazione si configurava come avvenuta mediante il segno di un dito, il famoso, o famigerato «dedazo».
Per settanta anni il più popoloso Paese ispanoamericano è stato governato da un partito a tutti gli effetti unico, anche nel nome dal momento che si era autodefinito Pri, Partido revolucionario institucional. Poi è scoppiata una piccola rivoluzione e al potere c’è andato, grazie soprattutto al voto delle grandi città, un uomo come Vicente Fox, leader di un Pan, Partido de Acción Nacional, decisamente di destra. Adesso è tempo di un nuovo termine, Fox un po’ ha deluso e, comunque, non potrebbe ripresentarsi e il bipartitismo appena inaugurato si è già trasformato in una partita a tre: l’uomo del Pri Roberto Madrazo, l’erede alla guida del Pan, Felipe Calderón, e il candidato del Prd, Partido de la Revolución democrática, López Obrador, sindaco di Città del Messico e leader della sinistra. Che non ha proprio nulla di moderato. Rappresenta soprattutto la capitale ma si è formato nella remota provincia del Tabasco, con una sua storia di romanticismo ed estremismo.
Ricordate la leggenda di Pancho Villa e di Emiliano Zapata che, rispettivamente dal Nord e dal Sud marciano su Città del Messico, depongono il dittatore Porfirio Diaz e aprono mezzo secolo di guerre civili? Accadeva pressappoco mentre l’Europa sprofondava nella I guerra mondiale, ma ha lasciato ricordi interamente vivi e che dunque sono più che ricordi. Se tutto il Sud America è percorso di questi tempi da una febbre che chiamano «populista», il Messico non è, come retorica, molto più indietro del Venezuela con il Chavez o della Bolivia con il suo Morales.
Obrador è prima di tutto un candidato «anti». Anti globalizzazione, anti America, anti modernizzazione, anti liberismo, anti razionalismo ma anche anti cattolicesimo. Il suo modo di presentare le scelte, e le cose, è, sotto un certo punto di vista, il più radicale che si senta nell’emisfero. Obrador divide il mondo, anzi l’universo, in due partiti: quelli di Sopra e quelli di Sotto. Gli americani sono evidentemente di Sopra, ma così anche gli abitanti delle città rispetto a quelli delle campagne, tutti coloro che sono insigniti di una qualche autorità contro gli umili e i disarmati, i ricchi contro i poveri, la modernità contro l’arcaismo.
Tale consequenzialità semplificatoria lo porta a includere tra i suoi bersagli il Padreterno, di cui nessuno potrà negare che sta Sopra e quindi è un oppressore di quelli di Sotto. Con le sue regole, comandamenti, proibizioni varie. Il Messico ha conosciuto guerre di religione, aspre e violente, l’ultima delle quali è rimasta nella memoria come «rivolta dei Cristeros». Dall’altra parte combatteva, un paio di decenni prima, il generale Francisco Múgica, naturalmente un ex seminarista, che invece di arringare le sue truppe come si fa di solito, con la promessa che «Dio è con noi», diceva che Dio era contro e quindi bisognava combatterlo.

Quando conquistò, nel 1916, la capitale del Tabasco, San Juan Bautista, ne abolì il nome. Da allora essa si chiama Villahermosa. Città del Messico è un toponimo laico e quindi è improbabile che López Obrador intenda ribattezzarla. Ma, visto l’uomo, se lo dicesse ci si crederebbe.

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