Problemi si accumulano sul tavolo di George Bush, ma l’America si stringe attorno a lui. Lo rivela un sondaggio pubblicato su Newsweek e che è in parte una sorpresa. Almeno per le sue dimensioni: in tre giorni l’indice di approvazione del presidente per come «difende la sicurezza del Paese» è schizzato all’insù di 11 punti: dal 44 al 55 per cento. Uno spostamento in favore di Bush che non si verificava da quasi cinque anni, cioè dall’immediato «giorno dopo» della strage di Manhattan. E un parallelo si impone: un eccidio, quello, perpetrato per via aerea, un eccidio per via aerea sventato o almeno rivelato adesso. La reazione dell’opinione pubblica è duplice: allarmata e rassicurata al tempo stesso. La conferma che il pericolo terrorismo islamico è più vivo che mai, ma anche che le misure di difesa funzionano. Una magra consolazione se si vuole, ma che conferma l’impostazione che questo presidente ha dato fin dall’inizio della sua «guerra al terrore»: siamo in pericolo, ma ci difendiamo. L’America è minacciata, ma al contempo è «più sicura». Una teoria che può essere avvalorata solo dai fatti, e i fatti, almeno in quel campo, collimano con i progetti e gli slogan.
La quasi unanimità dell’inverno 2001 è stata a poco a poco erosa da dubbi e insuccessi nei singoli terreni di scontro, particolarmente in Irak; ma ogniqualvolta l’attenzione si sposta su una minaccia più immediata agli Stati Uniti, riprende quota l’interpretazione che degli eventi ha dato la Casa Bianca: è in corso una guerra sola, quella al terrore, che si svolge su diversi campi di battaglia e il cui andamento va giudicato nel suo complesso. In tale contesto certe cattive notizie hanno un effetto simile alle buone notizie che da qualche tempo si sono fatte più rare, perché spingono la gente a unirsi dietro un leader che almeno dà prova di mettercela tutta e garantisce che non si farà cogliere di sorpresa e che, soprattutto, non minimizzerà mai la portata del pericolo. Sono esattamente, fra l’altro, i temi, anzi il tema centrale, su cui si imposta la campagna elettorale repubblicana per il Congresso, che si presenta difficile più di quanto lo sia mai stata nell’ultimo decennio.
Quando gli elettori hanno in mente cose diverse dalla «guerra al terrore» il loro giudizio si fa critico e si profila la possibilità che almeno uno dei due rami del Parlamento di Washington passi il 2 novembre sotto controllo dei democratici. Lo stesso sondaggio che registra il balzo all’insù di Bush conferma che oggi come oggi solo il 34 per cento approva la sua gestione dell’economia (un dato persistente ma sorprendente dal momento che in tutti questi anni l’economia americana è andata in complesso molto bene), mentre il 53 per cento preferisce le ricette proposte dall’opposizione, per vaghe che esse siano. In momenti non di emergenza questo dato determina il giudizio globale, e dunque oggi gli americani sembrano preferire, nella medesima misura del 53 a 34, che il Partito democratico conquisti il Senato o la Camera o entrambi. Gli elettori sono un po’ più generosi nel giudizio sul presidente, il cui indice di approvazione è salito dal 35 al 38 per cento. Su esso pesa negativamente anche la guerra in Irak, che 60 americani su 100 ritengono ormai un errore. Ai repubblicani rimane da giocare una carta sola, che però è anche la più importante: la leadership nella guerra al terrore. Il Partito repubblicano è preferito a quello democratico per un 44 a 39 per cento, ma la fiducia nel presidente è risalita, come abbiamo visto, a quota 55.
Ce n’è abbastanza, insomma, per giustificare l’argomento principe della campagna che Bush conduce per salvare la sua maggioranza in Congresso: se la perdesse egli si troverebbe le mani legate in molti campi, compreso quello politico-militare. Di qui l’argomento martellato: il partito d’opposizione è «fiacco nella difesa della sicurezza nazionale» ed è vero che fra i democratici regna, fin dal primo giorno, parecchia confusione in materia: il motivo principale per cui Bush è stato rieletto nel 2004.
Alberto Pasolini Zanelli
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