
Riprendere in mano i classici è cosa buona e giusta. D'altronde sono classici anche perché sono sempre attuali. Ad esempio, la nuova edizione dei Demòni (Einaudi, pagg. 744, euro 28, traduzione di Emanuela Guercetti) di Fëdor Dostoevskij rischia di essere il libro dell'anno, di qualsiasi anno. Senz'altro il consiglio è di abbinarlo a Dostoevskij inedito. Quaderni e taccuini 1860-1881 (Luni editrice, pagg. 720, euro 30). Dostoevskij era un grafomane e il suo diario contiene una miriade di riflessioni, appunti, bozze di articolo, prime stesure di racconti e perfino l'andamento del conto bancario dello scrittore.
Partiamo dai Quaderni e taccuini: fondamentali per capire cosa sia la Russia. Dostoevskij conosce la cultura europea ma la rifiuta in nome di un sentimento che, nel suo caso, è più slavofilo che russofilo. La Russia infatti è un impero e in quanto tale si compone di più parti unite sotto la corona dello zar (e in futuro, quando lo zar cadrà, di una élite rivoluzionaria, la nuova aristocrazia che lo scrittore vede avanzare con chiarezza sconcertante). In sostanza, Dostoevskij ripudia il nostro materialismo e il nostro nichilismo. Entrambi conducono a una vita infelice, fondata sul riempirsi il ventre (parola che torna spessissimo). Nessuno però può vivere solo per il ventre, i russi men che meno, perché sono idealisti e religiosi. Nei Taccuini c'è l'esperienza di un uomo che aveva militato tra i «radicali» e aveva anche frequentato la galera. Il tomo edito da Luni è colossale ma non fatevi prendere dal panico: si può aprire a caso e lasciarsi catturare dalla intelligenza dell'autore.
I demòni tocca anche i temi ora accennati ma qui ne vogliamo affrontare un altro. Non avete mai l'impressione che gli intellettuali pubblici, al tempo delle ideologie avremmo detto «organici» o «militanti», siano dei truffatori? Recitano la parte dei dissidenti anche se hanno le mani in pasta dappertutto, simulano competenze inesistenti, si attribuiscono una superiorità culturale ingiustificata. Anche i migliori hanno un difetto: si attardano in dibattiti grotteschi sul fascismo, come se il problema fosse quello e non la rivoluzione tecnologica e antropologica già in atto. Servirebbe una parola sensata su questo argomento, una parola capace di distinguere il catastrofismo (le macchine ci uccideranno tutti), i pericoli reali (che fine farà l'uomo?) e le opportunità (ci libereremo da alcune malattie, per dirne una).
Ma l'intellettuale non ne vuole sapere e questo è l'ultimo tradimento dei chierici. Perché evitare il futuro significa oggi evitare chi davvero guida la società (mondiale).
Dostoevskij guardava lontano. Nei Demòni fa a pezzi due generazioni di intellettuali, sedicenti o reali. Nella prima parte del libro, svetta Stepan Trofimovic, autore russo con una cultura erede dell'illuminismo europeo. Ecco il ritratto perfido che ne fa Dostoevskij (la citazione è lunga ma ne vale la pena, pensate a quanti intellettuali italiani si potrebbe adattare senza dover toccare una virgola): «Stepan Trofimovic ha sempre svolto fra noi un ruolo particolare e, per così dire, engagé, e questo ruolo lo amava appassionatamente, al punto che - mi sembra - non avrebbe potuto vivere senza. Non che voglia equipararlo a un attore in teatro: Dio me ne guardi, tanto più che personalmente lo stimo. Poteva trattarsi di semplice abitudine, o per meglio dire di una nobile inclinazione, coltivata ininterrottamente fin dall'infanzia, per la piacevole fantasia di incarnare una bella figura engagé. Per esempio, amava straordinariamente la sua posizione di perseguitato e, per così dire, di confinato. In queste due parolette c'è una sorta di lustro classico che l'aveva sedotto una volta per sempre, ed elevandolo poi a poco a poco, anno dopo anno, nella sua stessa opinione, aveva finito per collocarlo su un piedistallo assai alto e piacevole per il suo amor proprio».
Perfetto. Applausi per Fëdor. Trofimovic è o crede di essere un idealista. La generazione di suo figlio Pëtr è invece nichilista fino al midollo. Nei giovani rivoluzionari convivono disprezzo per le istituzioni, odio per le tradizioni e un ateismo fortemente polemico verso il sacro. Il problema di questi ragazzi moderni è che non hanno nulla con cui soppiantare la vecchia società. Sono agenti della pura distruzione. Non credono, in realtà, neppure nel comunismo e nel socialismo, che pure propugnano. I più intelligenti tra loro hanno già capito dove si andrà a parare. Assomigliano ai Sessantottini. Ecco cosa dice Pëtr dell'uguaglianza, e scusate la seconda lunga citazione: «Ogni membro della sua società sorveglia l'altro ed è tenuto alla delazione. Ciascuno appartiene a tutti, e tutti a ciascuno. Tutti sono schiavi e uguali nella schiavitù. Nei casi estremi calunnia e assassinio, ma soprattutto uguaglianza. Per prima cosa si abbassa il livello dell'istruzione, delle scienze e dei talenti. Un alto livello delle scienze e dei talenti è accessibile solo alle capacità superiori: via le capacità superiori, non servono! Quelli con capacità superiori si sono sempre impadroniti del potere e sono diventati despoti e hanno sempre più corrotto che portato benefici: vengono cacciati o giustiziati».
Conclusione: «Gli schiavi devono essere uguali:
senza dispotismo non c'è mai stata né libertà né uguaglianza, ma nel gregge deve esserci uguaglianza». Piena obbedienza, piena spersonalizzazione per tutti. Tranne per la ristretta élite della aristocrazia rivoluzionaria.
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