Padovano, un po’ milanese ma soprattutto romano. Veste in blu, si è definito “noioso, monotono e non simpatico”, mangia poco, non beve e va a letto presto la sera: Mai dopo le ventitré (è infatti il titolo della sua autobiografia). Il giornalista sportivo Franco Rossi di lui disse: “In tutto il mondo, dopo Fidel Castro, è la persona che da più tempo sta al potere”. Il dittatore cubano è morto nel 2016, quando Carraro era senatore di Forza Italia e oggi oltre ad essere membro d’onore della FIGC è presidente del Consiglio Direttivo della Divisione Calcio Paralimpico e Sperimentale. Franco Carraro ha attraversato tutta l’Italia repubblicana, dal dopoguerra ad oggi. All’hotel Cristallo di Cortina vide Alcide De Gasperi, Ugo La Malfa gli chiese una candidatura per il Pri, vicino al Psi, amico di Bettino Craxi, definisce Arnaldo Forlani “una persona speciale”. Giulio Andreotti gli chiese una raccomandazione, ma con la solita prudenza che lo contraddistingueva. Da Nereo Rocco a Messi, da Indro Montanelli a Enzo Bearzot. Le tante vite di un uomo che (non) si definisce di potere.
Presidente, Lei ha detto di sé: “Sono stato atleta, sindaco, ministro, dirigente, ho governato il calcio, il Coni, lo sport”. Quante vite ha vissuto?
“Mi sembra sei o sette. Una volta Giulio Andreotti mi ha raccontato che aveva accompagnato un suo collega ministro dell’Industria a presenziare alla premiazione dei venticinque anni di fedeltà al lavoro di un’azienda. Il commento del politico americano fu: “Noi in America uno che rimane venticinque anni nello stesso posto lo puniamo!”. Ecco, io ho avuto nella mia vita la fortuna di occuparmi di settori diversi”.
Come è stata la sua infanzia?
“Condizionata dalla guerra ma privilegiata. Privilegiata perché mio papà aveva lavorato duramente riuscendo ad avere abbastanza denaro. Quando sono nato era scoppiata la guerra e ricordo seppur vagamente che sono stato sfollato a Venezia, Asiago, a Padova… quando arrivavano i bombardamenti spesso ci rifugiavamo nella Basilica di Sant’Antonio o del Santo - come la chiamano i padovani -. Essendo lontana dalle fabbriche e in territorio del Vaticano c’era quasi la certezza che le bombe non arrivassero”.
Lei fin da giovanissimo maturò una notevole predisposizione, passione e capacità per le discipline sportive.
“Nel 1956, per la prima volta, diventai campione europeo di sci nautico. Avevo diciassette anni. Mio papà, provenendo da una famiglia numerosa e con diversi problemi economici, iniziò a lavorare molto presto, assumendo il ruolo di capofamiglia. A lui piaceva che facessi sport, era quasi una rivalsa e mi incoraggiava. Era appassionato di calcio e la domenica andavamo a vedere le partite insieme. Avevamo l’abbonamento del Milan e dell’Inter. La domenica tipo era: messa alle 11:00, aperitivo al Biffi Scala, pranzo a casa e Stadio San Siro. Alle partite pur essendo abbonati pagavamo la tassa pro-Martinitt di circa cento lire”.
Il rapporto tra la sua famiglia e il Milan?
“Mio papà aveva un’azienda di distribuzione di tessuti all’ingrosso, a Padova, Milano… e negli anni ’50 dette una mano al Padova di Nereo Rocco, che era in crisi. Lavorando nel settore dei tessuti conoscevamo bene i Riva, prima Giulio, imprenditore serio, molto ricco e capace, proprietario del Cotonificio Vallesusa e poi Felice, il “biondino”, un po’ stravagante, che nel 1963 succedette ai Rizzoli alla guida del Milan. Nel settembre del 1964 Felice ci chiese di entrare nel consiglio, mio papà come vicepresidente e io come consigliere. Poi, nella primavera del 1965 ci siamo dimessi a causa dei problemi aziendali che stavano per travolgere il gruppo Riva. Con l’uscita di scena della famiglia di Legnano, mio papà è stato eletto presidente del Milan. Dopo poco purtroppo si è ammalato ed è mancato. Così io sono subentrato nella carica di presidente”.
L’incontro con il leggendario Nereo Rocco? Soprannominato “El Paron”, di lui Gianni Brera scrisse: “Noi eravamo fieri di non avere mai sete e spesso bevevamo per evitare il pericolo di averla. Che fastidiosa noia, dover bere per sete!”.
“Nereo Rocco è stato un allenatore che mi ha insegnato moltissimo. Tra l’altro con lui stavo per compiere un errore clamoroso! In occasione di un allenamento della nazionale guidata da Edmondo Fabbri, svoltosi a Milanello, organizzammo una colazione invitando tutto il calcio italiano. Io capitai al suo tavolo. Già da ragazzo ero totalmente astemio e mangiavo poco, al contrario di Rocco che apprezzava il vino e la buona cucina… mi sembrò una persona un po’ superata, fuori dal mondo… Per fortuna, mio papà accettò il consiglio di Bruno Passalacqua, il nostro direttore generale, bravo ed efficace. “Va bene Rocco” disse mio papà e così lo assumemmo riuscendo a vincere praticamente tutto”.
Sotto la sua presidenza del calcio l’Italia ha vinto due mondiali. E Lei ha scelto entrambi gli allenatori, Enzo Bearzot e Marcello Lippi.
“Un giorno, io ero presidente della Federazione, avevo preso il posto di Artemio Franchi andato all’Uefa, venne Fulvio Bernardini dicendomi: “Franco, io adesso me ne vado. Ormai il mio lavoro l’ho fatto, sono stanco e ho la mia età. Ti do un consiglio, metti Bearzot. Lui smania per fare l’allenatore della nazionale. Ha un carattere difficile, ma anche tutti i numeri per ricoprire il ruolo. Dammi retta”. Io pur dispiaciuto della scelta di Fulvio, persona straordinaria, decisi di chiamare Bearzot. La scelta di Marcello Lippi nasce da un confronto con Adriano Galliani nello spogliatoio agli europei in Portogallo - 2004 - dove fummo eliminati. Chiamai poi Antonio Giraudo: “Prova a sentire se Lippi è disponibile a guadagnare meno che alla Juventus”. E lui accettò”.
Chi sono stati in Italia i veri padroni del calcio?
“I presidenti delle società che di volta in volta se ne sono occupati. Diciamo che nella storia le squadre protagoniste sono sempre state Juventus, Milan e Inter, quelle in continuità… Poi c’è stata l’esperienza del Napoli di Corrado Ferlaino, una persona importante, la famiglia Matarrese che ha avuto il Bari, Sergio Cragnotti e i Sensi rispettivamente proprietari di Lazio e Roma, Tanzi al Parma, Baglini e Cecchi Gori alla Fiorentina, Arrica al Cagliari, ecc. È chiaro, la famiglia più importante sono gli Agnelli per il tempo, ma i grandi sono stati i Moratti e Silvio Berlusconi, il suo Milan ha vinto tutto e di più”.
Qual era il rapporto tra calcio e politica?
“A me non sembra che ci sia mai stato un legame. Si dice: “Massimo D’Alema ha salvato la Roma!”, “Giulio Andreotti ha bloccato il trasferimento di Falcao!”, ma sono leggende. Anzi, le persone quando sono state chiamate a votare hanno dimostrato buon senso sapendo ben distinguere. Faccio un esempio: negli anni ’50 uno dei giocatori più popolari di Roma, forse il più popolare, il capitano Amedeo Amadei si presentò alle elezioni per il rinnovo del Consiglio comunale della capitale non venendo eletto. E si votava con la preferenza!”.
Dal mondo dello sport è passato alla politica e viceversa. Ministro, sindaco e poi senatore. Fu Craxi a volerla primo cittadino di Roma?
“In parte fu per volontà di Bettino Craxi, però la persona che ha avuto l’idea fu Giancarla, la moglie del regista Franco Rosi. Ad una cena, presente anche il leader socialista, mentre parlavamo - c’era la crisi della giunta Giubilo - lei disse: “Chi sarebbe bravo a fare il sindaco di Roma è Franco”. Bettino ebbe poi il via libera anche da Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani”.
Quando si avvicinò al Partito Socialista?
“Il merito fu di Indro Montanelli. Mio papà, che lo conosceva, mi diceva di leggere i suoi articoli perché nessuno scriveva come lui. Nel 1956 Montanelli racconta sul Corriere della Sera i fatti dell’Ungheria, dove la rivolta contro il sistema comunista era sostenuta dai tanti socialisti che avevano assistito al tradimento dei loro ideali. Negli anni ’60 mi iscrissi al Psi nella sezione Ticinese e conobbi Bettino Craxi”.
Lei è stato ministro del Turismo e dello Spettacolo con tre diversi presidenti: Goria, De Mita e Andreotti.
“Quando Craxi diventò segretario del partito mi chiese di candidarmi a fare il deputato, ma non accettai sia nel 1983 sia nel 1987. Dopo le elezioni dell’87, una sera mi disse: “Senti, se noi entreremo nel governo di Giovanni Goria io voglio rinnovare tutta la delegazione socialista e non pesco tra deputati e senatori ma persone della società civile”.
In occasione delle Olimpiadi di Mosca del 1980, da presidente del Coni si scontrò con l’allora segretario del Psi Craxi e con il presidente del Consiglio Cossiga.
“Fu il momento in cui litigammo e non mi parlò per un anno. Gli Stati Uniti avevano chiesto di boicottare le Olimpiadi. Craxi e io rimanemmo d’accordo che se la gran parte dei paesi dell’Europa occidentale andava, saremmo andati anche noi. Quando si stava per prendere la decisione finale il governo americano impose al cancelliere tedesco Schmidt di non partire. Lui chiese solidarietà all’Italia e Craxi ne sostenne la linea. Così come Giovanni Spadolini. La maggioranza si divise, la Dc a sua volta era divisa tra chi come Andreotti e la sinistra del partito era a favore delle Olimpiadi e chi come Forlani, Bisaglia ed altri erano contrari e a favore del boicottaggio. Il governo non è in grado di decidere e si rivolge al Coni. Mi chiamò quindi Cossiga, mi recai a Palazzo Chigi e mi disse: “Le chiediamo ufficialmente che il Coni non vada”. Io però feci valere la posizione dello sport, gli atleti dovevano partecipare e indicai tutta una serie di motivi anche giuridici”.
Lei ha attraversato un’intera Repubblica. Quale presidente del Consiglio l’ha particolarmente colpita?
“Giulio Andreotti conosceva la macchina dello Stato come pochi e aveva una straordinaria capacità di lavoro sui dossier. Silvio Berlusconi è stato presidente del Consiglio e capo dell’opposizione più a lungo di tutti. Tutti coloro che sono stati presidenti del Consiglio avrebbero desiderato rivestire ancora tale incarico. Tutti tranne uno: Arnaldo Forlani perché era pigro, amava la politica ma non la quotidiana gestione del potere. Forlani era una persona speciale. Quando l’ho conosciuto negli anni ’70, in pieno terrorismo, da ministro della Difesa veniva a vedere le visioni private dei film da Luigi De Laurentiis con la sua macchina”.
Ritiene di essere stato un uomo di potere?
“Io penso di aver avuto la responsabilità di prendere tante decisioni. Se potere è assumere decisioni e non sottrarsi allora sì. Quando c’era da decidere l’ho fatto, in autonomia e senza vincoli. Devo dire la verità, nessuno a me ha mai offerto una lira, forse perché sapevano che avrei rifiutato oppure non contavo nulla”.
A Roma una forte influenza, da una parte all’altra del Tevere l’ha avuta Giulio Andreotti. Come si strutturava il suo potere?
“Andreotti aveva una cura quasi maniacale del collegio elettorale. Alle sette di mattina andava in chiesa e all’uscita dava l’elemosina, riceveva e rispondeva a tutti. Il potere nasce da qui. Ricordo bene quando aveva lo studio al quarto piano di un palazzo di fronte Montecitorio, un appartamento immenso con dentro un sacco di gente che era in realtà il suo collegio elettorale. Devo anche dire che a differenza di quanto si sostiene, Andreotti era un uomo prudente. Faccio un esempio. Una volta mi scrisse una lettera: “Il Signor Rossi è la persona migliore del mondo… deve essere aiutato… la sua storia racconta… ecc…”. Era una raccomandazione. Poi, alla fine, a mano aggiunse “comunque caro presidente, sono sicuro che lei farà tutto quello che è giusto nell’ambito della massima correttezza. Cordiali saluti”. La prudenza di Andreotti!”.
Ha qualche aneddoto mondano e sportivo?
“A Sestriere, dove ho imparato a sciare, nell’albergo di proprietà degli Agnelli, nel dopoguerra ho conosciuto Emilio Pucci. Lui aveva portato in Svizzera Edda Ciano. E l’“Avvocato” Agnelli gli aveva dato l’incarico di fare le pubbliche relazioni nell’albergo. Ricordo che ogni tanto si travestiva da donna… è stato uno dei grandi pionieri del made in Italy portando la moda italiana nel mondo. Quando ero nel cda del Mian, l’imprenditore Nino Rovelli un giorno disse: “Io sono interista, ma entro in consiglio perché sono amico di Felice Riva”.
È vero che Papa Francesco l’ha scambiata per un autista?
“Era il 2013. Partita tra Italia e Argentina. Le squadre vengono ricevute dal Papa. Io come membro d’onore della Federazione faccio parte della delegazione. Al termine dell’udienza, Francesco prese il microfono e disse: “Avete visto com’è la delegazione argentina? Quella italiana tutta ordinata, mentre l’Argentina… spero che anche quelli che si occupano del mio cerimoniale capiranno per quale ragione io sono poco propenso a seguire le loro regole”. Dopodiché io uscii tra i primi, mi recai nel cortile di San Damaso, era mezzogiorno, faceva un caldo… e mi levai la giacca. Il Santo Padre venne giù e salutò tutti gli autisti, me compreso, uno a uno”.
Giovanni Paolo II era molto appassionato di sport.
“Sì. L’ho incontrato molte volte quando ero sindaco. C’è una cosa che mi ha colpito particolarmente di lui. Quando pregava capivi che c’era qualcosa di speciale. Io ho conosciuto due santi: Wojtyla e Madre Teresa. Una donna “piccola” ma con una grinta spaventosa e mi metteva una soggezione pazzesca”.
Perché Mai dopo le ventitré?
“Non mi è mai piaciuto andare a letto tardi la sera…”.
Di Lei si racconta che quando va al ristorante e attende più di dieci, quindici minuti, si alza e se ne va. È vero?
“Dieci minuti sono tanti! (Ride) diciamo che sono un po’ smanioso”.
Qual è un suo pregio e difetto?
“Ne ho talmente tanti di difetti. Pregio diciamo di essere trasparente e non dire bugie, taccio le verità, ma non dico bugie”.
Da atleta, sindaco, dirigente e politico, come vorrebbe essere ricordato un domani?
“A parte la famiglia che per me è al primo posto, è lo sport la
cosa a cui sono sentimentalmente più legato. Mi ha accompagnato per tutta la vita. Nei tre anni e mezzo in cui ho fatto il sindaco di Roma ho conosciuto la vita e le persone nelle loro diverse e complesse sfaccettature”.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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