I dolori, le messe nere, i tribunali speciali: cosa fu l'Affare dei Veleni del Re Sole

Avvelenamenti, omicidi, messe nere. Sono questi gli elementi inquietanti di uno degli scandali più terribili della Storia, capace di macchiare in modo indelebile il regno di Luigi XIV, gettando ombre sinistre perfino sui personaggi più in vista alla corte di Versailles

Di Bottega di Pierre Mignard - Sergey Prokopenko, Wikicommons, Madame de Montespan
Di Bottega di Pierre Mignard - Sergey Prokopenko, Wikicommons, Madame de Montespan

L’Affare dei Veleni (1679-1682) è una di quelle pagine del passato agghiaccianti che, pur essendo di grande interesse storico, di solito non vengono studiate a scuola. Eppure, oltre a essere uno scandalo senza precedenti alla corte di Luigi XIV, poiché coinvolse diversi membri altolocati della corte, fece emergere tutte le debolezze del mondo dorato creato dal Re Sole per controllare i nobili francesi. In un certo senso l’Affare dei Veleni fu un fallimento politico e personale del sovrano.

Prima dell’inizio: la morte di Enrichetta d’Inghilterra

Nella primavera del 1670 Enrichetta Anna d’Inghilterra (1644-1670), cognata di Luigi XIV (aveva sposato il fratello del Re, Filippo duca d’Orléans), iniziò a lamentarsi a causa di strani dolori al fianco. Con il passare del tempo questi fastidi si estesero all’apparato digerente, tanto da renderle molto difficile mangiare. Il 29 giugno di quell’anno, dicono gli storici, durante il suo soggiorno a Saint Cloud, Enrichetta bevve un bicchiere d’acqua di cicoria fredda.

Non sappiamo se e in che misura quest’ultimo dettaglio abbia influito o meno su ciò che accadde subito dopo, ma è bene tenerlo a mente. Dopo aver bevuto, infatti, la cognata del Re si sentì malissimo. Sosteneva di avere dolori al fianco ed era convinta che qualcuno l’avesse avvelenata. I medici di corte tentarono di curarla, ma non vi fu niente da fare: Enrichetta morì il 30 giugno 1670. Tra i cortigiani si mormorava che fosse stata assassinata dal Cavaliere di Lorena, amante del duca d’Orléans e, per questo, nemico giurato della duchessa, che era riuscita anche a farlo esiliare per un periodo. I dubbi e i pettegolezzi non si indebolirono neppure quando l’autopsia rivelò che la morte era da imputare a una gastroenterite.

Stando alle ricostruzioni il Re Sole avrebbe interrogato di persona il maggiordomo del fratello, il quale gli avrebbe rivelato che Enrichetta era stata davvero avvelenata dal cavaliere di Lorena. Benché quest’ultimo avesse un movente molto forte, non possiamo dire con certezza che avvelenò Enrichetta d’Inghilterra. Anzi, non possiamo affatto sostenere che la duchessa fu uccisa. Secondo gli studi più recenti la cognata del Re potrebbe essere morta di peritonite. C’è anche chi sostiene che fosse malata da molto tempo. Perché, allora, Enrichetta gridò di essere stata avvelenata? Potrebbe essere stata una semplice suggestione. La nobildonna sapeva di avere dei nemici e di doversi guardare le spalle.

Anche i cortigiani insistettero sulla tesi dell’avvelenamento, ma non certo perché avessero delle prove. In quell’epoca, infatti, non era raro che invidie, gelosie, vendette venissero risolte, “aiutate”, per così dire, dall’omicidio. Dall’avvelenamento in particolare. Forse la morte di Enrichetta d’Inghilterra non ha nulla a che vedere con tutto questo, ma rende bene il clima sospettoso, di pericolo di quegli anni e per questo può essere una specie di preludio a quello che accadde tra il 1679 e il 1682.

Il Vaso di Pandora

Paradossalmente fu una morte accidentale e non un avvelenamento ad aprire il Vaso di Pandora. Il 31 luglio 1672, infatti, l’avventuriero appassionato di alchimia Jean Baptiste Godin de Sainte Croix morì nel suo laboratorio, forse a causa di un esperimento malriuscito. L’uomo aveva così tanti debiti che i suoi creditori chiesero un inventario dei beni, sperando di riuscire a recuperare il loro denaro. Tra i suoi oggetti venne trovato uno scrigno di pelle rossa accompagnato da un biglietto su cui era stato scritto: “Da aprire solo in caso di morte precedente a quella della marchesa”.

Gli ispettori incaricati dell’inventario scoprirono che l’aristocratica a cui si riferiva Saint Croix era Marie Madeleine d’Aubray, marchesa di Brinvilliers. Nel cofanetto, infatti, erano custodite delle lettera inviate da quest’ultima all’alchimista, di cui era amante. Ma la scoperta vera fu un’altra: in quelle missive la marchesa ammetteva di aver ucciso il padre, due fratelli con l’acqua tofana, per prendersi la loro eredità. Non solo: accanto alle lettere vi era anche una fiala di veleno.

Marie Madeleine, condannata in contumacia nel 1673 e braccata dalla polizia, fuggì in Inghilterra, ma poi decise di nascondersi in un convento di Liegi nel 1673 (all’epoca non c’era estradizione nei luoghi di culto). Servì a poco. Nel 1676 venne catturata con uno stratagemma, torturata e decapitata il 16 luglio 1676. Era stato Saint Croix a insegnare alla marchesa "l’arte dei veleni", da lui appresa durante la sua reclusione alla Bastiglia, quando si era ritrovato in cella con un italiano esperto in materia, un certo Exili.

Forse questa vicenda non avrebbe avuto grande eco se la Brinvilliers, prima di morire, non avesse confessato di non essere la sola a fare commercio di veleni. La marchesa affermò che molti erano coinvolti, perfino persone dalla reputazione apparentemente immacolata. Il Re Sole, turbato da quanto accaduto e ben consapevole del fatto che nel suo regno il veleno fosse un’arma usata con eccessiva frequenza, decise di aprire un’inchiesta, affidata al luogotenente generale di polizia Gabriel Nicolas de la Reynie. Ciò che l’uomo scoprì è a dir poco tremendo.

Veleni e messe nere

Nel gennaio del 1679 le indagini arrivarono a una svolta con l’arresto di Marie Bosse, chiromante e nota avvelenatrice che si era vantata in pubblico di aver venduto rimedi “fatali” a molti personaggi di spicco della nobiltà francese. Prima di finire al rogo, l’8 maggio 1679, Marie fece il nome di un’altra maga, Catherine Deshayes, vedova Montvoisin, detta La Voisin (1640-1680).

Con l’arresto de La Voisin, avvenuto il 12 marzo 1679, l’Affare dei Veleni entrò in una fase cruciale: la donna si era reinventata come chiaroveggente e ostetrica dopo la bancarotta del marito gioielliere, ma non ci aveva messo molto a capire che vendendo pozioni fatte con polvere di ossa umane e veleni i suoi guadagni sarebbero stati molto più lauti. In fondo gli uomini e le donne che la contattavano chiedevano, sostanzialmente, due cose: trovare l’amore, essere ricchi e potenti. E per farlo erano disposti a “rimuovere” qualunque tipo di ostacoli.

Poco importava se la persona che volevano conquistare era già sposata, se il denaro che pretendevano apparteneva ai loro genitori, se la posizione che bramavano era già stata conquistata da un altro. Nessuno avrebbe avuto sospetti se un genitore avaro avesse reso l’anima prima del tempo, o un rivale in amore fosse morto in circostanze apparentemente naturali. In fondo poteva capitare. Questi erano i macabri, terrificanti ragionamenti della Deshayes e delle persone che si rivolgevano a lei.

La perquisizione in casa de La Voisin aggiunse altro orrore a quello già visto e ascoltato da La Reynie: i poliziotti vi trovarono un forno crematorio dove sarebbero stati bruciati dei feti dopo gli aborti condotti clandestinamente proprio dalla “maga”. Dagli interrogatori venne fuori che la Deshayes aveva amicizie tra loschi personaggi che per anni avevano organizzato delle messe nere, durante le quali venivano sacrificati dei neonati. La donna venne condannata al rogo in Piazza de Gréve, dove morì il 22 febbraio 1680.

Accuse alla favorita del Re

Il Re Sole, deluso, furioso, incredulo di fronte allo scandalo, istituì un tribunale speciale, la Camera Ardente (il nome venne scelto per via delle torce che illuminavano la sala), che lavorò al caso dall’aprile 1679 al luglio 1682. La Camera Ardente nacque per tentare di mantenere il più possibile la riservatezza sull’Affare dei Veleni, dato il rango di molti degli accusati. Dopo tre anni, però, Luigi XIV ordinò, di punto in bianco, di chiudere l’inchiesta. Il motivo di tanta fretta era semplice: la viglia di Catherine Deshayes, Marguerite, aveva fatto il nome della marchesa De Montespan, all’epoca favorita del Re.

La donna si sarebbe rivolta molte volte a La Voisin, chiedendole di organizzare messe nere, con tanto di sacrifici umani, che le “assicurassero” l’amore del sovrano. Quando la Montespan capì che il regale amante cominciava a stancarsi di lei, avrebbe addirittura tramato con la “maga” per ucciderlo. Luigi XIV venne anche a sapere che la sua favorita lo avrebbe drogato con un afrodisiaco. Disgustato, cercò un modo per allontanarla da sé e, nello stesso tempo, proteggerla dal processo. Del resto rimaneva la madre dei suoi figli. Le accuse contro di lei avrebbero potuto danneggiare irreparabilmente la monarchia.

Il Re Sole fece bruciare i documenti che riportavano il nome della sua amante (non sapendo che la Reynie aveva fatto delle copie), ma non la perdonò mai. La Montespan cadde in disgrazia, ma non pagò per i suoi presunti crimini. Nel 1691 si ritirò in convento e morì il 27 maggio 1707.

La fine dell’intrigo

La Camera Ardente ascoltò 442 imputati, emise 319 ordini di cattura, 36 condanne a morte e 30 verdetti di assoluzione. Per la politica di Luigi XIV l’Affare dei Veleni fu un fallimento, perché dimostrò l’incapacità del Re di controllare quella stessa nobiltà che aveva tramato contro di lui all’epoca delle Fronte, quando aveva solo 10 anni. Non era riuscito davvero ad asservirla al potere assoluto. Nemmeno la gabbia dorata che aveva creato per i nobili a Versailles, residenza in cui la corte si trasferì nel 1682, in concomitanza con la fine ufficiale dell'Affare dei Veleni, cambiò la situazione.

Versailles, con i suoi riti immutabili, la sue gerarchie e i privilegi tanto ambiti assecondò, in un certo senso, la brama dei cortigiani più malvagi e disonesti, continuando a "istigarli" nella ricerca spasmodica di titoli, favori, ricchezze e potere a qualunque prezzo.

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