Il principe Mohammed bin Salman fu il mandante dell’omicidio Khashoggi?

Cosa accadde davvero al giornalista Jamal Khashoggi nel consolato saudita di Istanbul il 2 ottobre 2018?

Il principe Mohammed bin Salman fu il mandante dell’omicidio Khashoggi?

A sei anni di distanza la morte del giornalista e scrittore Jamal Khashoggi rimane un mistero. Sappiamo che si trattò di un brutale omicidio, ma rimangono molti punti oscuri. Fin da subito i media e l’opinione pubblica internazionale puntarono il dito contro il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, accusato di essere il mandante. Khashoggi sarebbe stato punito per le sue posizioni critiche contro la famiglia reale saudita. Avrebbe pagato con la vita il coraggio di esprimere apertamente il suo dissenso.

In esilio volontario

In molti articoli Jamal Khashoggi, giornalista saudita del quotidiano al-Waṭan (La Patria), denunciò senza remore la linea politica del suo Paese, proprio lui che inizialmente sarebbe stato, come sottolinea la Bbc, piuttosto vicino alla famiglia reale saudita. Si scagliò, in particolar modo, contro la linea politica del principe ereditario Mohammed bin Salman e l’intervento del governo in Yemen, decisione che scatenò una guerra e una conseguente crisi umanitaria senza precedenti.

Tra il 25 e il 26 marzo 2015, infatti, l’Arabia Saudita, di corrente sunnita, iniziò a bombardare le basi dei ribelli Huthi in Yemen che, al contrario, appartengono alla corrente sciita zaydita. Una lotta per l’egemonia politica e religiosa, dunque, anche perché sembra proprio che dietro gli Huthi vi sia lo sciita Iran, il quale finanzia i ribelli garantendo loro anche l’addestramento militare.

Il conflitto non è ancora chiuso. Al contrario lo Yemen è diventato il terreno d’azione per le alleanze internazionali anche per la sua debolezza politica e per la posizione geografica strategica (si trova proprio tra il Mar Rosso e il Golfo di Aden, ovvero una rotta commerciale di primo piano). Le posizioni di Khashoggi aiutarono a fare luce su un conflitto quasi dimenticato dai media, ma gli avrebbero inimicato il governo, soprattutto Mohammed bin Salman.

Nel 2017 il giornalista scelse di lasciare l’Arabia Saudita, un esilio volontario che lo portò negli Stati Uniti, dove iniziò a lavorare per il Washington Post. Nel settembre dello stesso anno Khashoggi rivelò di temere di essere arrestato per ordine di bin Salman in un giro di vite sui dissidenti sauditi.

L’assassinio

Il 28 settembre 2018 Khashoggi dovette recarsi al consolato saudita di Istanbul per richiedere i documenti che attestavano il suo divorzio, necessari per contrarre nuove nozze con la fidanzata turca, Hatice Cengiz (in Turchia, infatti, la poligamia è vietata). Sembra, però, che lo staff gli abbia chiesto di ritornare una seconda volta, poiché le carte non sarebbero state ancora pronte. Il giornalista si ripresentò, come da accordi, il 2 ottobre 2018. Le telecamere di sorveglianza lo filmarono soltanto mentre entrava nel consolato alle 13:14, ora locale. Non ripresero mai il momento dell’uscita, perché Khashoggi non abbandonò l’edificio da vivo.

Stando alla ricostruzione della Bbc, prima di varcare la soglia del consolato, quel giorno, lo scrittore avrebbe lasciato alla fidanzata un cellulare sincronizzato con il suo Apple Watch, dandole una precisa indicazione: chiamare uno dei consiglieri del presidente Erdogan qualora non fosse rientrato a casa in un tempo ragionevole. Quando si rese conto che il fidanzato tardava, Hatice cominciò a preoccuparsi: aspettò il giornalista più di dieci ore di fronte al consolato. Tornò il giorno seguente, ma di lui non vi era nessuna traccia. Pareva davvero sparito nel nulla.

Per circa due settimane il governo saudita negò categoricamente di sapere cosa fosse accaduto a Khashoggi. Il 5 ottobre 2018 Mohammed bin Salman chiarì a Bloomberg News che l’uomo avrebbe lasciato il consolato “dopo pochi minuti o un’ora” al massimo, sottolineando: “Non abbiamo niente da nascondere”. Il successivo 20 ottobre, però, la situazione cambiò completamente: il governo saudita sostenne che, secondo i risultati di un’indagine preliminare, Khashoggi sarebbe morto in seguito a una colluttazione, mentre cercava di opporsi al rimpatrio in Arabia Saudita. La causa esatta della morte sarebbe stata strangolamento.

Il 25 ottobre arrivò il colpo di scena. Il procuratore generale dell’Arabia Saudita dichiarò alla Saudi Press Agency: “Le informazioni delle autorità turche indicano che l’atto dei sospetti nel caso Khashoggi è stato premeditato”. Il 15 novembre il sostituto procuratore saudita Shalaan al-Shalaan rivelò che l’assassinio sarebbe stato ordinato dal capo di un “team di negoziazione” inviato dall’Arabia Saudita a Istanbul dal vice capo dei servizi segreti sauditi. Lo scopo di questa squadra sarebbe stato quello di convincere il giornalista a tornare in patria attraverso “mezzi di persuasione” o “con la forza”. Insomma, con le buone o con le cattive.

La dinamica dei fatti, però, non coincide del tutto con quella riportata dal governo saudita: secondo al-Shalaan Jamal Khashoggi sarebbe stato immobilizzato dopo la rissa e gli sarebbe stata iniettata una dose fatale di droga. Dopo la morte il cadavere sarebbe stato smembrato e portato fuori dal consolato per liberarsene definitivamente. Il sostituto procuratore si affrettò a dichiarare che cinque persone avevano confessato l’omicidio, mentre “[il principe Mohammed bin Salman] era all’oscuro di tutto”.

Un processo “farsa”

Furono licenziati anche cinque funzionari di governo, tra cui il vice capo dell’intelligence saudita Ahmas Asiri e un collaboratore di bin Salman, Saud al-Qahtani (quest’ultimo, ricorda SkyTg24, sarebbe il vero mandante dell’omicidio). Nel gennaio 2019, a Riyadh, iniziò il processo, a porte chiuse, per l’omicidio di Khashoggi, che vide imputate undici persone. Per cinque di queste venne chiesta la pena di morte.

Tuttavia Human Rights Watch fece notare che il procedimento non aveva rispettato le norme internazionali di equità e “trasparenza”. Nel dicembre 2019 arrivò la sentenza: cinque persone furono condannate alla pena capitale “per aver commesso e partecipato direttamente all’omicidio”, tre alla prigione “per aver coperto questo crimine e violato la legge”, mentre altre tre furono giudicate innocenti. Nonostante le dichiarazioni ufficiali al-Shalaan ribadì che la dinamica dei fatti dimostrerebbe un’altra verità, cioè che “l’assassinio non è stato premeditato”.

Punto importante, quest’ultimo, su cui non tutti concordano ancora oggi, poiché l’insistenza sull’assenza di premeditazione potrebbe essere interpretata come il tentativo di mettere al sicuro bin Salman. Inoltre ci sarebbe un particolare degno di nota, che farebbe pendere l’ago della bilancia sulla premeditazione: poco prima dell’arrivo di Khashoggi al consolato i dipendenti turchi sarebbero stati invitati a prendersi una giornata di libertà. Per quale ragione sarebbe stata presa questa decisione se nessuno aveva intenzione di fare del male al giornalista? L’ipotesi della coincidenza sembrerebbe fin troppo debole.

Nel maggio 2020 il figlio di Jamal Khashoggi, Salah, annunciò che lui e la sua famiglia avevano perdonato gli assassini e accettavano la tesi della mancanza di premeditazione. Di tutt’altro avviso era la fidanzata di Khashoggi, che definì il processo “una farsa” e aggiunse: “Le autorità saudite chiudono il caso senza che il mondo conosca la verità sulle responsabilità nella morte di Jamal. Chi ha pianificato [l’omicidio], chi lo ha ordinato, dov’è il suo corpo?”. Nel settembre 2020 il tribunale di Riyadh commutò le sentenze di morte in venti anni di prigione, mentre agli altri tre imputati vennero assegnate pene tra i sette e i dieci anni, chiudendo definitivamente il procedimento giudiziario.

Versioni diverse

Finora abbiamo analizzato l’omicidio solo dalla prospettiva saudita. L’inchiesta effettuata dalla Turchia, però, è altrettanto rilevante e giunse a conclusioni diametralmente opposte: qualche giorno prima che Khashoggi arrivasse a Istanbul quindici agenti sauditi, con la complicità di tre funzionari dei servizi segreti, avrebbero rimosso i video delle telecamere di sorveglianza interne relativi al giorno in cui lo scrittore entrò nel consolato, in modo da non lasciare tracce di ciò che sarebbe accaduto di lì a poche ore.

Il 31 ottobre 2018 il giudice capo di Istanbul ricostruì anche un’altra dinamica dei fatti, che non collima con quella fornita dai sauditi: il giornalista sarebbe morto per soffocamento e l’omicidio sarebbe avvenuto poco dopo il suo ingresso nel consolato. Poi il corpo sarebbe stato fatto a pezzi per facilitarne la l’occultamento e la successiva distruzione. Il 2 novembre 2018, sul Washington Post, il presidente turco Erdogan dichiarò: “[Khashoggi] è stato ucciso a sangue freddo da uno squadrone della morte”, sottolineando un tassello fondamentale: “Questo omicidio è stato premeditato”.

Non solo. Erdogan si fece le stesse domande proposte dalla fidanzata del giornalista: “Dov’è il corpo di Khashoggi?...Chi diede l’ordine di uccidere quest’anima gentile? Purtroppo le autorità saudite si rifiutano di rispondere a queste domande”. Comunque il presidente, pur ritenendo che l’assassinio fosse stato organizzato “ai più alti livelli del governo saudita”, ci tenne a sottolineare di non aver mai creduto, neanche per un secondo”, a un’altra ipotesi circolata in quel frangente, secondo cui sarebbe stato addirittura “Re Salman, il custode delle moschee sacre” a ordinare un tale atto di barbarie.

Per la Turchia svolgere delle regolari indagini non fu affatto semplice: per circa due settimane dopo la morte del giornalista le autorità dell’Arabia Saudita avrebbero negato agli agenti turchi l’accesso al consolato. Un tempo incredibilmente lungo quando c’è di mezzo un assassinio. Quando finalmente le autorità sarebbero riuscite a entrare, il 15 ottobre 2018, non avrebbero trovato nulla. Nessuna traccia. Tutto sarebbe stato “accuratamente, scientificamente pulito”, come ha scritto nel suo rapporto da 101 pagine, datato giugno 2019 e citato dalla Bbc, Agnes Callamard, delle Nazioni Unite.

Ne conseguirebbe che “l’indagine saudita non è stata condotta in buona fede e potrebbe equivalere all’intralcio alla giustizia”. Da al-Jazeera, però, trapelarono notizie di “manomissioni” sulla scena del delitto. I circa venti inquirenti turchi incaricati della perquisizione sarebbero riusciti a trovare, nonostante la meticolosa pulizia, prove del fatto che l’assassinio avvenne all’interno del consolato.

Nel marzo 2020 il tribunale di Istanbul accusò di omicidio venti cittadini sauditi, tra cui i già citati Saad al-Qahtani e Ahmad Asiri. L’Arabia Saudita, però, negò l’estradizione e il processo, iniziato nel luglio 2020, si svolse in absentia. Nel novembre dello stesso anno le autorità turche aggiunse altri sei nomi alla lista degli indagati, tutti cittadini sauditi. Per le Nazioni Unite, invece, sia l’indagine turca, sia quella saudita erano da rifare, come pure i processi, che non avrebbero rispettato i principi di equità e giustizia.

Registrazioni non verificate

Nel novembre 2018 il governo turco annunciò di essere in possesso di registrazioni audio riguardanti i momenti in cui Khashoggi veniva ucciso e di averli condivisi con Arabia Saudita, Stati Uniti, Francia, Germania, Regno Unito. Questi audio non sono mai stati resi pubblici. Il rapporto Callamard ne riportò alcuni passaggi, pur specificando che non era stato possibile ottenere le copie dei file dai giudici turchi e di aver avuto a disposizione solo quarantacinque minuti di registrazione su un totale di circa sette ore.

In questo audio si sentirebbero le voci di due funzionari che discutono sul modo più rapido per liberarsi del corpo di Khashoggi. Poi, in una conversazione successiva, qualcuno all’interno del consolato avviserebbe il giornalista del suo imminente rimpatrio, ma quest’ultimo risponderebbe: “Ho avvertito delle persone fuori. Mi stanno aspettando. Un autista mi sta aspettando”. Analizzando la versione integrale degli audio le autorità turche stabilirono un’altra dinamica dell’omicidio: Khashoggi sarebbe stato drogato e, subito dopo, soffocato con un sacchetto di plastica. Gli audio riporterebbero anche i rumori della colluttazione e addirittura, verso le 13:39, quelli di una sega.

Il ruolo di Mohammed bin Salman

L’ipotesi principale sull’omicidio di Khashoggi vede, ancora oggi, il principe ereditario Mohammed bin Salman come mandante. Tuttavia il suo presunto ruolo nel caso non è mai stato provato. Il 13 novembre 2018 il New York Times rivelò il contenuto di una strana telefonata tra due membri dello staff saudita inviati al consolato di Riyadh a Istanbul. Durante la conversazione uno dei due direbbe all’altro di riferire al “capo” che “la missione è compiuta”. Tuttavia questo non dimostrerebbe nulla, perché non viene fatto alcun nome.

Il 17 novembre, però, la Cia, come riportato dal Washington Post, sostenne di avere prove certe della colpevolezza di bin Salman. Tra queste vi sarebbe anche una telefonata in cui il principe avrebbe detto al fratello Khaled di “mettere a tacere Jamal Khashoggi il prima possibile”. Il 26 febbraio 2021 l’intelligence statunitense riaffermò il presunto coinvolgimento del figlio del sovrano saudita, ma il governo decise di non sanzionare Mohammed bin Salman, per evitare di compromettere i rapporti tra Usa e Arabia Saudita.

Nel novembre 2022 l’amministrazione Biden propose l’immunità per bin Salman poiché, come specificato dal Dipartimento di Giustizia americano, citato da Rai News, “l’imputato bin Salman, in quanto capo in carica di un governo straniero, gode dell’immunità presso la giurisdizione dei tribunali statunitensi”. Il principe, infatti, era stato nominato primo ministro del regno nel settembre 2022 (nomina dal tempismo sospetto, secondo alcuni). Nel dicembre successivo la magistratura statunitense archiviò tutte le accuse contro bin Salman, compresa una denuncia di Hatice Cengiz.

“Oggi Jamal è morto di nuovo”, affermò in un tweet la fidanzata di Khashoggi. Troppe cose non tornano in questo vero e proprio intrigo internazionale ed esiste la concreta possibilità che nessuno riesca mai a trovare la verità.

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