Stefania Barzini: "La mia Sicilia tra cibo, letteratura e gattopardi"

La celebre scrittrice aperte le "porte" del suo mondo: la Sicilia, Alicudi, il cibo, la letteratura, l'aristocrazia e la storia di Rosa Balistreri. Un libro che avrebbe dovuto scrivere Sciascia

Stefania Barzini: "La mia Sicilia tra cibo, letteratura e gattopardi"

Stefania Aphel Barzini, “metà siciliana e metà napoletana”, dopo il successo de “Le Gattoparde” è tornata da protagonista in libreria con una storia che si allontana dai tradizionali e maestosi palazzi nobiliari palermitani per entrare nella miseria umana e sociale di una donna (Rosa Balistreri) che nonostante le difficoltà e crudeltà della vita è riuscita a riscattarsi e a vincere la sua battaglia.

Nei suoi racconti c’è sempre la Sicilia.

“Per me è una fonte d’ispirazione. La Sicilia è in piccolo l’Italia con tutti i suoi difetti e virtù. E la letteratura siciliana è un po’ la culla della letteratura italiana”.

Come definirebbe l’isola?

“Benedetta da Dio e maledetta dagli uomini”.

C’è una parte che ama particolarmente?

“Le Isole Eolie dove vado da cinquant’anni. Dopo Stromboli, dove ho trascorso la mia infanzia, mi sono innamorata di Alicudi. Questa è un’isola in cui si sente la natura, c’è un rapporto forte con il silenzio, con se stessi. Non è un luogo per tutti”.

Cosa significa per Lei scrivere?

“Scrivere per me è sempre un po’ come viaggiare”.

I suoi libri sono un viaggio senza tempo dalla cucina tradizionale alle vicissitudini dell’aristocrazia siciliana.

“Giuseppe Tomasi di Lampedusa fa dei racconti meravigliosi di cibo sia ne “Il Gattopardo” sia nelle sue lettere. Lui andava sempre a pranzo dai cugini Piccolo, bizzarrissima famiglia palermitana che viveva come rinchiusa a Capo d’Orlando. Qui, ha scritto una parte importante della sua celebre opera letteraria. E raccontava i fantastici e prelibati piatti preparati dalla cugina che era una cuoca raffinata, appassionata di gastronomia e botanica”.

L’internazionalizzazione dei cibi sta modificando tale identità culinaria?

“Di tutto il nostro paese è uno dei luoghi che sta perdendo di meno perché hanno la fortuna di avere una grandissima varietà d’ingredienti e un’altissima qualità a cui non rinunciano”.

Cos’è che la rende così speciale?

“L’insieme di diverse culture gastronomiche: Medio Oriente, arabi, normanni, spagnoli, francesi etc. Tutto questo si mescola e il risultato è straordinario”.

Quali sono i simboli della cucina siciliana?

“Le cassate, i cannoli, la frutta di Martorana, i biscotti fatti come dei ricami, la parmigiana, la pasta con le sarde, le alici impanate, l’insalata di arance, i tenerumi, lo sfincione, la pasta di mandorle…”.

Esiste ancora nei vecchi palazzi baronali quell’aristocrazia gattopardesca?

“Rimane il fascino, l’ospitalità, la gentilezza, un modo di vivere molto semplice ma desueto. Penso ad esempio alla famiglia della mia amica Fabrizia Lanza di Mazzarino. Purtroppo, è un mondo che tende a scomparire”.

L’ultimo gattopardo?

“Forse, il padre di Fabrizia, Vinceslao Lanza di Mazzarino che era fratello di Gioacchino, adottato da Giuseppe Tomasi di Lampedusa e frequentatore di Villa Piccolo dove ebbe modo di incontrare Montale, Pasolini, Sciascia…”.

I Florio?

“Hanno rappresentato un momento di vero splendore per la Sicilia. Erano più ricchi degli imperatori che invitavano ma spendevano come dei pazzi e si sono giocati un patrimonio immenso. Sono stati anche degli abili imprenditori, innovatori, dalle solfatare al commercio del Marsala fino alla compagnia di navigazione che arrivava alle coste americane. Avevano costruito un vero e proprio impero. Mi sarebbe tanto piaciuto vivere quel bellissimo momento”.

L’ultimo suo libro è “La mia casa è un’isola. La vita e la musica di Rosa Balistreri” (Giunti Editore, 286 pagine).

“Un romanzo con elementi tratti dalla vita di questa artista di Licata che per la prima volta ho conosciuto alla “Festa de l’Unità” a Firenze. Avevo venti anni e mi colpì la sua presenza scenica, la voce”.

Perché proprio Rosa?

“Mentre stavo facendo le ricerche de “Le Gattoparde”, storie di donne, ho scoperto casualmente alcuni tratti della sua figura e poco dopo mi sono appassionata della sua vita burrascosa. Non credevo a tutte le incredibili disgrazie e tragedie personali”.

Può fare un esempio?

“Viveva in una condizione di miseria che noi nemmeno possiamo immaginare. È cresciuta in una stanza con il padre, la madre, i fratelli e un maiale. Non aveva scarpe fino a quindici anni, non sapeva né leggere né scrivere e mangiava un giorno sì e uno no”.

Questa condizione di “ultima” della classe la portò a sposare la causa del Pci?

“Sì. Voleva difendere i più deboli, i contadini, le donne etc. Lei diceva che non era una cantante con lo spacco ma un’attivista che faceva politica con la chitarra. Ma alla fine il Pci fu una delusione. L’ha usata fino a quando gli ha fatto comodo per poi dimenticarla”.

Nel 1973 fu esclusa dal Festival di SanRemo con “Terra ca nun senti”.

“Raccontava la miseria della sua terra, la Sicilia che dimentica i suoi figli. E la sua esclusione le consentì di essere un po’ la vincitrice morale dell’edizione”.

Musica ma anche teatro.

“Nel mondo teatrale è entrata sempre grazie alla musica, c’era bisogno di una voce cantante. Ha recitato ne “La lupa” (opera di Verga) con la Proclemer, con Maurizio Scaparro, ha lavorato con Andrea Camilleri e con lui condivise l’ultima esibizione teatrale”.

Quale insegnamento lascia?

“Userei un termine: resilienza. Cioè la capacità di resistere e andare avanti malgrado le avversità del destino. Aveva un sogno: cantare. Per quel sogno ha sacrificato tutto e non si è mai arresa”.

È mai scesa a compromessi?

“Mai. Anzi, il suo successo è figlio di dure battaglie. Una sera, dopo essere tornata a vivere a Palermo, l’amico Guttuso la inviò a cena dicendo che aveva un ospite americano pronto a girare un film in Sicilia e cercava qualcuno per le musiche. L’ospite le chiese di suonare “Vitti na crozza”. Lui pretendeva che aggiungesse un ritornello allegro e lei prese la chitarra e se ne andò”.

Libro

Come mai?

“Era infastidita da quell’atteggiamento perché la canzone raccontava una vicenda drammatica”.

Chi era il regista?

“Francis Coppola. Il film “il Padrino”.

Fo, Camilleri, Sciascia, Buttitta, Guttuso etc, chi di loro ebbe maggiore influenza?

“Ognuno è rimasto colpito dalla sua personalità. Sicuramente Buttitta, lui recitava le sue poesie e lei cantava. L’altro è stato Guttuso che l’ha proprio aiutata finanziariamente. Le regalava i suoi disegni e dopo aver sceso le scale mandava il suo segretario a ricomprarli. La finanziava senza umiliarla”.

Camilleri?

“L’ha conosciuta nell’ultima parte della sua vita e ne ha sempre parlato con enorme rispetto e rimpianto. “Morì” nel suo spettacolo”.

Buttitta?

“Gli doveva molto. Lui scrisse una frase bellissima sulla vita di Rosa: “Un dramma, un romanzo, un film senza autore”. E ha sempre raccontato che questa storia doveva scriverla Sciascia. Purtroppo, è morto prima di farlo e io mi sono sentita molto in imbarazzo”.

Però si è convinta.

“Rosa non meritava di essere dimenticata”.

Il legame con la Sicilia?

“Ondivago. L’amava moltissimo ma ne vedeva i limiti e ha sofferto molto. Licata, dove è nata, non l’ha mai riconosciuta come avrebbe dovuto!”.

La musica ha salvato Rosa da tutte le sofferenze della sua vita o è stata una parte della sofferenza?

“Un po’ tutte e due. Ha cantato la sofferenza della sua vita, ma cantando ha riscattato quella sofferenza che non dimenticò mai”.

È stata più di una cantante?

“Sì. Direi una cantastorie e in questo faceva parte della migliore tradizione siciliana. Arrivavano nei paesi con l’ “apetta”, svolgevano un telone con le immagini disegnate e cantavano”.

Il prossimo libro?

“Riguarderà Alicudi”.

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