La «Petit messe», suoni eleganti per una cattedrale di preghiera

Umberto Benedetti Michelangeli rende magica l’opera sacra di Rossini

da Pesaro

Mai credere a Rossini quando parla di sé. Le sue parole sono maschere. Uomo pieno di spirito, d'ironia, di nevrosi, un po’ ci vuole depistare e forse un poco ci vuole selezionare. Chi accetta il gioco del nascondino lo può afferrare, chi crede di averlo davanti si sbaglia e non lo conoscerà mai. Negli ultimi anni della sua vita, quando a Parigi è il re dell'intelligenza, della musica, della vita sociale più in, e da tempo non scrive opere, ma solo qualche rara composizione sacra, qualche lirica rapida e una raccolta di miniature pianistiche intriganti che chiama Peccati di vecchiaia, la maschera è quella del minimizzatore. Per esempio, scrive una partitura geniale, con momenti da brivido, per poche voci, due pianoforti e un harmonium fedele alla liturgia cattolica, la chiama Petite Messe Solennelle, e la congeda scrivendo «un po’ di scienza, un po’ di cuore: tutto qui». Poi, oltre la settantina, e in piena seconda metà dell'Ottocento, annuncia che, siccome a molti sarebbe venuta la tentazione di strumentarla per soli, coro e orchestra, tanto valeva che lo facesse lui, e scrive la nuova versione come fosse una pura convenienza e un semplice adattamento.
Umberto Benedetti Michelangeli, al Rossini Opera Festival, con l'intenso, affettuoso, impeccabile Coro di Praga e quattro voci carismatiche ma non al loro massimo, Iano Tamar, Daniela Barcellona, Saimir Pirgu, Michele Pertusi, ci ha portati fuori da ogni equivoco sciorinandoci la partitura di meraviglia in meraviglia. Non è solo un'orchestrazione, è una meditazione intima della parola sacra, ardita, esultante, che trapassa potenti architetture del passato e imprevedibili procedimenti moderni per costruire una cattedrale di preghiera. Un'eleganza francese le toglie peso e scongiura il pericolo di staccarsi dal gesto personale, dalla verità intima di ogni istante.
Il Festival osa anche una proposta. C'è, prima del Sanctus, un «Preludio religioso» di circa otto minuti che Rossini affida a un grande organo, spodestando l'orchestra. Che cosa si può fare quando l'ambiente non è una cattedrale e se si ha voglia di dar continuità al discorso, per così dire, sinfonico? Alberto Zedda, studioso in full immersion di Rossini da una vita e musicista estroso, prova a strumentarlo: l'organo si dirama in tanti strumenti, con cauta fedeltà al mutare di registri dell'originale. E viene in mente un verbo che nel campo organistico significa una tipica composizione dal sapore di ordinata improvvisazione, e che qui invece sa di inquietudine, attesa d'una risposta: ricercare. Al momento, uno può rimanere perplesso.

Ma la memoria poi lo immette dritto dritto nel percorso della Petite Messe. Quel percorso che Michelangeli porta a pienezza di fiducia, nel miracoloso Agnus Dei, con i suoi sipari di modulazioni e l'esaltante certezza della fine: quasi che l'umiltà con Dio possa trasformarsi in orgoglio.

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