La svalutazione dello yuan può essere l'arma per difendersi da Washington

Anche la Cina ha il suo bazooka, la svalutazione della propria moneta (che ha a che fare con i dazi)

La svalutazione dello yuan può essere l'arma per difendersi da Washington
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La guerra dei dazi si sta restringendo a un conflitto che sembra sempre più simile a una nuova guerra fredda. Quella tra Usa e Cina. La prima conferma è arrivata nella serata europea del 9 aprile, quando la Casa Bianca ha sospeso i dazi in tutto il mondo tranne che per Pechino. Questi, al contrario, sono stati ulteriormente alzati e, nella spirale scatenata dalle ritorsioni reciproche, sono arrivati al 125%. Il definitivo segnale che l’obiettivo di Donald Trump è fermare le importazioni cinesi è arrivato poche ore dopo direttamente da Pechino, dove la Banca centrale (Pboc) ha deciso di lasciare andare lo yuan. Tradotto significa permettere alla valuta nazionale di svalutarsi. E in poco tempo il rapporto di cambio con il dollaro è sceso ai minimi dal 2007. Lo yuan onshore ha toccato un minimo di 7,3518 sul biglietto verde prima di recuperare terreno sulle indiscrezioni che i leader di Pechino si riuniranno per discutere ulteriori misure di stimolo in risposta ai dazi di Donald Trump, come ha scritto l’agenzia Bloomberg. La Pboc, nel frattempo, sta abbassando i tassi d’interesse, giorno dopo giorno, con lo stesso obiettivo: rendere la valuta nazionale meno attraente. Ma perché succede questo? Come agisce una banca centrale di fronte alle tariffe doganali (i dazi)?

Il meccanismo monetario è semplice e intuitivo: con tassi più bassi calano anche i rendimenti dei titoli espressi in quella valuta, quindi diminuisce l’attrazione dei titoli obbligazionari cinesi. Questo è quello che sta facendo la Cina, invitando quindi gli investitori a vendere yuan e a comprare valute dove i rendimenti sono più alti. Per esempio, il dollaro. A questo punto bisogna andare a vedere le conseguenze reali, cioè sui mercati non più delle monete e dei titoli, bensì delle merci. Ebbene, posto che un esportatore cinese vende i suoi prodotti in yuan a un consumatore Usa che paga in dollari, fino a ieri – simuliamo – uno smartphone cinese venduto negli Usa a 7.000 yuan, a un impiegato del Minnesota costava 1.000 dollari. Ma se domani lo yuan si svaluta, supponiamo per facilità del 50%, mentre per il venditore cinese non cambia nulla (lo venderà sempre a 7.000 yuan), per l’impiegato del Minnesota il prezzo si dimezza: gli costerà solo 500 dollari.

Ecco perché la svalutazione cinese ha a che fare con i dazi. Questi, infatti, fanno aumentare il prezzo dello smartphone. Supponiamo che i dazi siano al 50%. Per il nostro venditore cinese continua a non cambiare nulla: sempre 7.000 yuan incasserà. Ma per l’impiegato del Minnesota il prezzo torna a essere di mille dollari. Con la differenza che i 500 bigliettoni in più finiscono nelle casse dello Stato Usa.

In altri termini, la svalutazione monetaria rende le esportazioni più attraenti, l’esatto opposto dei dazi, che le rendono più care.

È ovvio che meccanismi di questo tipo non possono essere portati alle estreme conseguenze. Si tratta di situazione in disequilibrio sostenibili solo nel breve periodo. Ma questo è quello a cui stiamo assistendo sui mercati e nelle dogane di tutto il mondo dal 2 aprile scorso.

La giornata di oggi 10 aprile ne è un esempio: le Borse di tutta Europa hanno aperto con rialzi che non si ricordavano, vicini alla doppia cifra.

Simili alla performance azionaria di un intero anno. Senza peraltro alcune certezze. Perché quando in Europa è mattina, Donald Trump sta dormendo. E nessuno sa cosa dirà più tardi, quando si sveglierà e deciderà di quale umore essere.

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