I cantieri navali americani che hanno contribuito a garantire il dominio di Washington sugli oceani nel Ventesimo secolo sono sul viale del tramonto. A trarne beneficio è la Cina, Paese in cui l’anno scorso sono state varate oltre la metà delle navi commerciali prodotte a livello mondiale. E negli stessi cantieri Pechino costruisce a ritmo serrato navi da guerra che, scrive il Wall Street Journal, potrebbero essere in grado di sostenere un conflitto di lunga durata nell’Indo-Pacifico in cui gli Stati Uniti avrebbero la peggio.
La superiorità cinese
Nell'analisi pubblicata dal quotidiano finanziario si afferma che il Paese del dragone è diventato il leader indiscusso della cantieristica mondiale e ciò per il gigante asiatico rappresenta “il simbolo della trasformazione storica da nazione continentale rivolta verso l’interno a potenza marittima”. Un traguardo che ben si inserisce nel progetto di ridefinizione generale dell’ordine mondiale promosso dal presidente cinese Xi Jinping sin dal suo arrivo al potere nel 2012.
Il sorpasso cinese nella costruzione di navi è reso ancora più clamoroso dal fatto che sarebbe avvenuto non solo nei confronti degli Stati Uniti ma anche dell’Europa. Il Vecchio continente, infatti, oggi detiene appena il cinque per cento della produzione navale globale, il contributo Usa è “pressoché nullo” e la maggior parte di quanto non viene costruito in Cina “arriva dalla Corea del Sud o dal Giappone”.
"L'entità della cantieristica cinese è quasi difficile da realizzare", afferma Thomas Shugart, esperto del Center for a New American Security. In America il medesimo settore, un tempo centrale e florido, si è drasticamente ridimensionato. Per avere un’idea di quanto sia grave la situazione basti pensare che negli Usa diversi cantieri possono contare ormai solo sulla marina militare come loro unico committente e devono fare i conti con lunghi ritardi, carenze di personale e materiali e l’aumento dei costi.
L'incubo della guerra
Gli ordini per i cantieri cinesi si accumulano per gli anni a venire e provengono da tutto il globo. Taiwan inclusa. Un paradosso, considerato che Pechino considera l’isola di Formosa una “provincia ribelle” da annettere quanto prima e con ogni mezzo. Secondo alcune valutazioni, in primis quella del direttore della Cia William Burns, Xi potrebbe decidere di passare all’azione entro il 2027.
L’analisi del Wall Street Journal presenta risvolti angoscianti proprio per Taiwan dove alle elezioni presidenziali di gennaio si è registrata la vittoria del Partito democratico progressista (Dpp), la formazione politica più invisa alla Cina sulla questione della riunificazione. Gli esperti militari temono che, oltre a quello aereo, l’accerchiamento dell’isola da parte della marina cinese potrebbe essere sufficiente a stroncare qualsiasi sogno di indipendenza per Taipei. Al momento infatti la flotta militare del gigante asiatico è composta da 370 navi e potrebbe arrivare a 435 unità entro il 2030. Quella Usa è ferma invece a quota 290 unità.
In un eventuale conflitto contro l'America per il controllo di Taiwan, Pechino potrebbe fare affidamento sui suoi cantieri già adatti a lavorare a pieno regime per accelerare ulteriormente la produzione e per rimpiazzare o riparare navi danneggiate durante le operazioni belliche.
Come sottolinea il quotidiano finanziario, qualora poi il conflitto si prolungasse nel tempo la Cina avrebbe un “vantaggio significativo” sugli Stati Uniti simile a quello che al tempo della Seconda guerra mondiale permise alle navi degli Alleati di prevalere sugli U-boat della Germania nazista. Corsi e ricorsi storici che adesso a Washington e non solo fanno correre brividi lungo la schiena.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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