Parigi vede nell’Europa una piattaforma su cui irradiare i propri interessi nazionali. Vale anche per Macron che, pure ammantandosi di un sentimento europeista e considerato appunto quale campione di integrazione continentale, non ha mai smesso di ribadire – più o meno tra le righe - la necessità di un’Europa a trazione francese. Il messaggio sembrava, in un primo momento, legato alla dialettica tra europeisti e sovranisti: ma nel corso del tempo, si è compreso che vi fosse una strategia più profonda, euro-francese. Perché è dall’Europa che Parigi sente la possibilità di ricostruire una sua strategia “imperiale”. Una concezione che si è cristallizzata su alcuni punti che appaiono chiari anche nelle scelte che hanno caratterizzato l’attuale “impero”, macroniano quanto dei predecessori dell’attuale presidente.
L’impressione è che dopo le diverse evoluzioni che hanno costituito la sua alterna fortuna europea, Parigi si sia fondata su due presupposti. Da un lato il senso di “grandeur”, immagine di sé superiore alle altre forze e capace di dominare le maree continentali interpretando il ruolo di regista. Dall’altro lato, un atavico timore: essere esclusa dal controllo dell’Europa a causa delle scelte di potenze interne ma soprattutto esterne al suo grande territorio di caccia continentale.
Potenza e paura convivono in un binomio quasi inscindibile. Potenza che è soprattutto sensazione di essere, nella migliore delle ipotesi, primus inter pares del consesso europeo. Paura che si declina in diverse forme. Verso il vicino tedesco, potenzialmente in grado di assumere un ruolo egemonico. Verso la Gran Bretagna, che sebbene isolata dal mare è sempre riuscita a ledere le ambizioni di Parigi sulla terraferma applicando il suo famigerato meccanismo dell'"equilibrio di potenza". Infine, dalla fine del Secondo conflitto mondiale, si è aggiunta la preoccupazione per la dicotomia Est-Ovest, con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica (oggi Russia) che si sono spartite l’influenza sull’Europa e registrando in questi ultimi anni anche l’avvento dell’impero cinese nell’economia e nella politica continentale.
È questo timore di perdere la possibilità di controllare l’Europa ad avere mosso, per larghi tratti, i fili della diplomazia di Parigi. Lo si può intuire già nei discorsi con cui de Gaulle tratteggiava una concezione del continente estranea a quella contrapposizione tra blocchi che ne stava forgiando il destino ai tempi della Guerra Fredda. Il 12 novembre 1953, il generale parlava dell’Europa come di entità che “va da Gibilterra agli Urali” ricordando di essere stato “a Mosca come a Londra o a Bruxelles” stabilendo relazioni “con Madrid oltre che con Ankara”. All’epoca, ricordiamo, Mosca era Urss, Madrid era la Spagna franchista, Ankara era una capitale di una repubblica estranea al blocco occidentale. Non erano le città di oggi, ma cuori di Stati al di là del primordiale nucleo europeo e atlantico.
De Gaulle, con il suo “farebbe parte dell’Europa chiunque lo voglia sinceramente” dava già l’idea di cosa volesse l’Esagono dal continente. E questa frase ha un valore ancora maggiore se inserita in un contesto storico in cui l’Europa, dopo il disastro delle due guerre mondiali, aveva perso definitivamente qualsiasi ambizione egemonica, e con essa anche la Francia. A questo proposito, a conferma della volontà di costruire una strategia autonoma transalpina che avesse nell’Europa la sua prima traduzione pratica, De Gaulle, convintamente anticomunista, non chiuse mai le porte a Mosca, definita Russia e non Unione Sovietica proprio per ribadire il legame con una nazione indipendentemente dal suo regime. E già nel 1942, fu lui a definire l’alleanza franco-russa, “una necessità che vediamo manifestarsi a ogni svolta della storia”.
Non è difficile osservare questi elementi anche nelle mosse compiute da Macron in questi anni proprio per quanto riguarda il difficile rapporto con la Russia. Il presidente francese ha provato a costruire ponti con Mosca e con il suo omologo Putin in diverse occasioni, anche quando il mondo occidentale e il Cremlino sembravano avere ormai intrapreso la via dello scontro o del mancato dialogo. Lo fece nel 2019, quando incontrando il presidente della Federazione disse di credere in una “Russia europea”. Lo fece nel 2020, quando affermò che “non può esserci progetto di difesa e sicurezza per i cittadini europei senza una visione politica volta a promuovere la graduale ricostruzione della fiducia con la Russia”.
Ed è un approccio diplomatico che non si è arrestato nemmeno con l’avvento della guerra in Ucraina, quando il capo dell’Eliseo ha lasciato sempre aperto un canale di dialogo con il Cremlino anche nei momenti più oscuri della prima parte del conflitto. Una scelta che è servita sia per elevare la Francia a potenza guida dell’Unione europea, sia per dimostrare di sapere svincolare il proprio Paese e la propria visione “europeista” da un rinnovato – ed evidente - vento atlantista che spira su tutto il continente. Al punto da chiedere in modo esplicito che l’Occidente non si orientasse verso “l’umiliazione” di Putin anche infrangendo in un certo senso quell’immagine data dai principali media internazionali di un leader europeista e ancorato ai cosiddetti principi moderati e perfettamente atlantisti sempre più aderenti al cosiddetto mondo “mainstream”.
La relazione tra Francia e Russia può pertanto essere letta sotto una duplice veste.
Come scelta strategica verso Mosca, ma anche come strumento per imporsi nel consesso internazionale: per contrapporsi a Washington (e in parte anche a Berlino) nel difficile equilibrio tra sogni di gloria europei e desiderio di non diventare una pedina di un gioco più grande ancorato ai desiderata americani. Un rapporto difficile, quello tra Francia e Stati Uniti, che si connota per una sfida culturale, prima ancora che geopolitica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.