Putin, Gaza e la sfida cinese: la politica estera secondo Kamala Harris

In caso di vittoria alle elezioni, la vice di Joe Biden erediterebbe crisi senza precedenti in politica estera. Prevista una resa dei conti con Benjamin Netanyahu

Putin, Gaza e la sfida cinese: la politica estera secondo Kamala Harris
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A meno di 48 ore dalla storica rinuncia di Joe Biden alla corsa per un secondo mandato, si fa sempre più probabile una sfida tra Kamala Harris e Donald Trump. Preso atto che l’ex procuratrice della California può adesso contare sul sostegno della maggioranza dei delegati del partito democratico, la stampa Usa passa al setaccio l’operato della vicepresidente per cercare di delineare come un’eventuale presidenza Harris affronterebbe le sfide geopolitiche che negli ultimi tre anni e mezzo hanno rappresentato per gli Stati Uniti uno stress test quasi senza precedenti.

Ucraina, Taiwan, Cina e Medio Oriente. Questi sono i dossier più spinosi che passerebbero in mano ad Harris in caso di vittoria il 5 novembre e sui quali, in generale, i commentatori politici non si aspettano cambiamenti rivoluzionari. Infatti, per l’ex procuratrice della California, prendere le distanze dalle azioni del vecchio Joe significherebbe sconfessare il lavoro di un’intera amministrazione in cui lei stessa ha prestato servizio.

La presidenza Harris potrebbe dunque muoversi nel solco tracciato da Biden a partire dalla conferma del sostegno all’Ucraina. Un impegno per il quale la vicepresidente si è spesa in prima persona. Nel 2022 mentre la Russia ammassava truppe ai confini pronte a muoversi contro Kiev, la candidata dem in pectore presenziava all’annuale conferenza di Monaco per lanciare l’allarme contro i piani di Vladimir Putin e dichiarare il suo appoggio alla Nato. Più di recente ha affermato che il supporto al presidente Zelensky andrà avanti “sinché sarà necessario” e ha rappresentato gli States alla conferenza per la pace svoltasi in Svizzera.

Parole molto dure sono state espresse dalla vice di Biden nei confronti del capo del Cremlino in occasione della morte in carcere dell’oppositore politico Alexei Navalny. Inoltre, non sono mancate le ripetute condanne degli attacchi russi alla popolazione civile in Ucraina. “Trump ha abbracciato Putin”, denuncia Harris riservando una stoccata al tycoon e lasciando intravedere scarse possibilità di trattare con Mosca.

In un nuovo mandato dem non si prevederebbero scossoni neanche sulle questioni legate alla Cina e alla sua crescente assertività nell’Indo-Pacifico. Harris si è scagliata più volte contro le provocazioni di Pechino a danno dei suoi vicini nel Mar Cinese Meridionale e ha reso chiaro di voler continuare a sostenere Taiwan. Nonostante una certa intransigenza, la sua linea ufficiale sarebbe però quella di tenere aperto un canale di comunicazione con Xi Jinping per gestire in maniera responsabile la competizione tra le due superpotenze.

Qualche sorpresa potrebbe invece arrivare nei rapporti tra Harris e l’esecutivo israeliano guidato dal premier Benjamin Netanyahu. A partire dagli attacchi di Hamas del 7 ottobre e dallo scoppio della guerra nella Striscia di Gaza, la vicepresidente ha criticato le operazioni militari di Tel Aviv e la violazione dei diritti civili della popolazione palestinese. Una presa di posizione ritenuta da diversi analisti più incisiva di quella di Biden e che, in caso di elezione della candidata dem, potrebbe costringere Tel Aviv a porre fine alle ostilità e a riprendere il dialogo per una soluzione a due Stati.

Il possibile ingresso nello Studio Ovale della prima donna presidente degli Stati Uniti sarebbe accompagnato da un terremoto nella squadra della Casa Bianca in materia di sicurezza nazionale. Andrebbero via il segretario di Stato Antony Blinken, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jake Sullivan e il segretario alla Difesa Lloyd Austin.

Tali elementi di spicco del team Biden verrebbero comunque sostituiti da esponenti internazionalisti che confermerebbero una linea di politica estera più tradizionale e rassicurerebbero i partner di Washington. Sempre che all’election day l’America non scelga di credere nuovamente al miraggio della pax trumpiana.

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