La missione di Palazzo Chigi all'insegna del pragmatismo: stabilizzare i rapporti con il nostro alleato storico

In questo clima di rarefatto contatto con il reale avrà luogo giovedì l'incontro della nostra premier con Trump e la sua amministrazione

Meloni e Trump alla cena di Mar-a-Lago
Meloni e Trump alla cena di Mar-a-Lago
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All'inizio era la consapevolezza di alcune ingiustizie sociali. E la correlata assunzione di responsabilità d'essere «sostanzialmente corretti». Il woke, strada facendo, si è trasformato in ortodossia culturale fatta di codici linguistici obbligatori, revisionismi storici e pratiche di cancel culture. È divenuto «irreale». Lontano dal buon senso comune e, per ciò stesso, incomprensibile alla maggioranza delle persone normali. Donald Trump ha vinto nel 2022 - e ancor di più nel 2016 - anche perché ha saputo incarnare una reazione semplice e provocatoria al wokeism. E all'opprimente élite che lo ha brandito come una clava. Pochi mesi dopo il suo successo, però, dobbiamo constatare che il rifuggire dalla realtà sta divenendo un segno dei tempi, che vale per tutti. Anche per quanti l'hanno denunziato e ne hanno tratto vantaggio. Il presidente rappresenta, in tal senso, un esempio. Non ci riferiamo alla congruenza delle sue proposte, ma alla perentorietà delle sue affermazioni. Tutti, ad esempio, gli abbiamo sentito assicurare, e ribadire, la fine immediata delle guerre in corso. Affermazioni rivelatesi irreali, senza bisogno di attese e verifiche. Ogni donna o uomo di buon senso, anche quanti hanno creduto in lui, può comprenderlo di fronte alle immagini delle conseguenze di un bombardamento che distrugge un ospedale a Gaza, o di un missile che, la Domenica delle Palme, provoca decine di morti civili in Ucraina. E se il discorso si allarga alla sua amministrazione, appare irreale l'immagine di Steve Witkoff - a chissà quanti americani memori della Guerra fredda - che si porta la mano sul cuore alla vista di Putin. Per non parlare della «pace giusta» da conseguire attraverso la divisione di Kiev in aree d'influenza, come se all'Ucraina potessero essere attribuite le stesse colpe della Germania nazista. Cambiano toni e contenuti, insomma, non la comprensibilità di talune manifestazioni. In questo clima di rarefatto contatto con il reale avrà luogo giovedì l'incontro della nostra premier con Trump e la sua amministrazione. Dalla lettura dei commenti di questi giorni di vigilia ci pare di cogliere un rischio che aleggia su questo appuntamento, determinando la cifra dell'attesa. Sembrano riconnettersi ad esso aspettative che hanno, pure loro, una parentela labile con la realtà delle cose. Perché non tengono conto dei rapporti di forza. Perché ignorano le regole della diplomazia. Perché ritengono il «fattore umano», pur importantissimo nelle relazioni tra Stati, in grado di produrre miracoli. Vale affermarlo senza remore. La missione di Giorgia Meloni a Washington non ha l'obiettivo di convertire Trump, nemmeno al buon senso. Proverà, piuttosto, a stabilizzare, per il possibile, le relazioni transatlantiche su dazi e lettura del generale quadro internazionale. Dovrà smentire la trasformazione della più antica democrazia del mondo in un nuovo Impero del male. E dimostrare, anche a chi non è uno statista, l'utilità di continuare a coltivare quel rapporto.

Anche perché, solo se ciò si rivelerà possibile, il processo di emancipazione avviato dall'Europa, innanzitutto in ambito militare, conquisterà il tempo necessario per divenire credibile. Evitando di trasformarsi in un'altra, ulteriore, fuga dalla realtà.

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