Il senso della Pasqua di un popolo in guerra

La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita

Il senso della Pasqua di un popolo in guerra
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«In ogni generazione qualcuno si leva per la nostra distruzione, ma Dio e lo spirito dei nostri combattenti ci salverà sempre». Ripete anche questo il «seder» di Pasqua, Pesach, ovvero uno dei riti più antichi della storia della civiltà, in mezzo a mille altre verità sempiterne: ricorda, ricorda sempre chi eri per sapere chi sei, fummo schiavi e oggi e come se tu fossi uscito dall'Egitto. «Figli della libertà», dobbiamo comportarci senza perdere mai di vista ciò che fummo, ripete il testo della Agadà, in cui si ripercorre la storia di come Mosè portò il popolo ebraico fuori dall'Egitto verso la libertà pratica e concettuale non solo dei suoi, ma del mondo.

La libertà, l'etica, le società democratiche su di esse basate, definiranno nuovi confini grazie alla Torah, la Bibbia, quando Mosè nel deserto riceverà i dieci comandamenti dei quali oggi viviamo. Stasera intorno al tavolo le famiglie ebraiche portano con sé dolore e aspettative insieme all'immensa determinazione a superare anche questa: «abbiamo passato il Faraone, supereremo anche questa», dice il testo mentre si

spezza l'azzima che ricorda come il mare si apri per il più folle dei miracoli, e sommerse l'esercito egiziano. E tutti gli ebrei del mondo con gli uomini di buona volontà avvertiranno il vuoto e pregheranno insieme per il ritorno dei rapiti e per i soldati che a Gaza combattono per loro e per sgominare definitivamente un nemico il cui odio per gli ebrei non ha limite in nessuna trattativa. Mentre si bevono i quattro bicchieri del rito, da una parte si pensa alla odierna, nuovissima trattativa fatale fra gli americani e gli iraniani che dovrebbe, forse, portare a un accordo per la distruzione delle strutture nucleari, oppure allo scontro inevitabile, se il potere messianico e brutale degli Ayatollah non abbandona il disegno ripetuto fino all'ossessione di distruggere Israele e il mondo occidentale. Dall'altra parte si tenta, sempre nelle ore di Pesach, di bloccare una mortale strada di collisione con Erdogan, il premier turco che adesso cerca di una base fissa in Siria per prendere possesso di una terrazza che lo doti di un inusitato potere di minaccia su Israele.

La guerra, anche se gli Hezbollah e i Houty sono indeboliti, è tuttora, a Pesach, nel calendario ebraico mentre si disegna la speranza di un mondo di rinascita. Gli Israeliani fra assassinati il 7 di ottobre e soldati uccisi ha superato i duemila morti in un anno e mezzo, una cifra enorme per dieci milioni di abitanti. Le storie di incredibile valore che ogni giorno vengono alla superficie, di ragazzi che hanno scritto ai genitori o alla loro amata lettere in cui la consapevolezza, a volte la certezza finale, di rischiare la vita è unita alla volontà invincibile di non volere rinunciare a questo onore, è un unicum nella storia moderna. Il rifiuto che essi combattono non è solo odio per Israele, ma per il mondo ebraico nel suo insieme: l'aggressione dell'antisemitismo politico rappresenta un pericolo di vita per tutti gli ebrei, ma oggi, al contrario che nel passato, ha di fronte i giovani leoni d'Israele.

Il 96 per cento degli ebrei del mondo, scrive Nathan Sharansky celebrano il seder di Pesach seduti al tavolo della tradizione nonostante la guerra. Sfidano la tempesta.

Non rinunceranno mai. Abbiamo superato il faraone, supereremo anche questa.

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