La base di Zikim sulla riva del mare, confina con uno dei kibbutz straziati da Hamas. Il traffico continuo di tank, veicoli corazzati, scavatrici che scoprono le gallerie dei terroristi, ruggisce sulla sabbia di Gaza. È un via vai di ragazzi dall’aria intensa, l’apparente confusione è un succedersi di operazioni. I paracadutisti che incontriamo per primi finalmente bevono una bibita: ieri hanno fatto la doccia e mangiato dopo nove giorni nella Striscia dormendo qualche ora per terra e mangiando noccioline, conquistando posizioni ormai su tutti i giornali del mondo. Le gallerie piene di armi, gli asili zeppi di missili, il Parlamento, la polizia di Hamas. Israele avanza, dagli ospedali ormai si assiste a sgomberi verso il Sud dopo che è stato chiaro che Israele non avrebbe accettato che restassero in funzione come rifugio della leadership di Sinwar: «Non ho avuto tempo di telefonare alla famiglia. Lo so dovrei - ride Shon, 24 anni - Siamo riserve, ma perfettamente allenati. Ero a Tel Aviv, lavoro nelle startup. Ma via di corsa, appena ha chiamato il comandante. Abbiamo subito combattuto nei kibbutz invasi. È indicibile quello che hanno fatto ai bambini e alle famiglie. Cosa sento? Che non permetteremo che accada mai più. A Gaza, spero, ci sono anche persone normali. Siamo qui per liberare anche loro».
Erwin è tornato dall’India: «Ovvio, con orgoglio: si sa che si può morire, ma lo scopo è più grande di noi. Non c’è scelta, non subiremo un attacco come quello del 7 ottobre». È con amore pratico e diretto per patria, casa, famiglia, tutti valori che in Europa sono difficili persino da pronunciare.
Adesso nella parte Nord di Gaza l’Idf ha catturato le basi più importanti del governo di Hamas a Sheikh Jilin e a Rimal dopo dure battaglia e consentendo corridoi umanitari verso il Sud. I soldati uccisi dall’inizio della guerra sono 46, un prezzo che si aggiunge a quello degli 1.400 assassinati e dei 239 rapiti il 7 ottobre. La determinazione dei soldati ha al centro la distruzione del gioiello della difesa di Hamas, le gallerie sotterranee. Quella connessa con l’ospedale Rantisi rivela al mondo l’uso delle strutture umanitarie come scudo e retroterra, esce fuori dalle fondamenta una stanza con una delle motociclette del ratto, biberon e pannolini, oggetti probabili dei rapiti, e una lista dei sorveglianti.
Parlamento, governo, centrale di polizia, tutto è nelle mani di Israele. Ne è fiero all’ospedale Ichilov, ferito in battaglia, Daniel, 21 anni, pianista per l’esercito, tiratore scelto e infermiere: «Mi sono ritrovato nudo dopo il colpo che mi ha preso alla schiena e alla testa. Accanto a me il mio migliore amico sanguinava. Stordito, ho sentito urlare “infermiere infermiere”, ma l’infermiere ero io, lui sanguinava, l’abbiamo salvato, ora è accanto a me qui all’ospedale. Ho danni a un orecchio, alla testa, sono bruciato sul braccio e sul corpo, ma muoio dalla voglia di tornare dalla mia unità. Io mi fido del mio lavoro di infermiere, c’è bisogno di me. Siamo un corpo unico: condividiamo il sacco a pelo e l’ultimo panino». Alla base, appena rientrato, un paracadutista di 30 anni, Shahar, racconta: «Il 7 ci hanno mandato nei kibbutz direttamente, appena arrivati a Be’eri, ad Alumim, abbiamo sbattuto la faccia nel sangue, i morti per terra, gli orrori e un numero enorme di terroristi. Ho perduto là un mio amico carissimo, il cui corpo è stato ritrovato solo dopo una settimana.
Entrare a Gaza a combattere è la cosa più naturale. Sono stato ferito alla schiena e alla testa. Ma ho chiesto di tornare prima possibile: i miei nonni erano sopravvissuti della Shoah, mio padre ha combattuto nella Guerra del Kippur.
Adesso è il mio turno. So che a un ragazzo italiano può sembrare strano. Ma farebbe lo stesso se la sua casa, la sua ragazza, fossero a 10 chilometri da qui: se ci mostrassimo deboli, Hamas cercherà di farci di nuovo a pezzi, nei kibbutz non si potrebbe tornare a casa.
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