L'incontro forse più sconcertante è quello del 26 novembre 2013. L'allora premier Enrico Letta incontra Vladimir Putin che si fa attendere un paio d'ore in quel di Trieste. Dettagli, quel che impressiona è il fiume di parole del capo del governo: «Noi abbiamo un drammatico bisogno di crescere, di creare posti di lavoro. C'è una ripresa da agganciare e in questo senso il rapporto con la Russia ci può dare posti di lavoro in settori per noi strategici».
Grandi aspettative, toni trionfalistici. Strette di mano e sorrisi in grande stile. Italia e Russia, dopo la conferenza stampa a braccetto, sono pronte al grande abbraccio. E invece, attenzione alle date, nemmeno tre mesi dopo, il 20 febbraio 2014, il Cremlino occupa la Crimea e mostra il suo volto aggressivo.
Altro che cooperazione e svolta europeista, semmai la zampata autocratica di chi non sa convivere con i ritmi della democrazia. Ma alla vigilia di quell'involuzione pericolosa e violenta, Letta è convinto che la Russia sia una sorta di terra promessa. «Abbiamo molti impegni da implementare, gli accordi devono diventare fatti concreti», gongola l'attuale segretario del Pd che dà i numeri di una giornata storica: 28 intese commerciali e 7 accordi intergovernativi in settori delicatissimi. La finanza, l'industria, l'energia.
Le antenne tricolori non captano quel che si sta preparando e che peraltro un po' tutti faranno finta di non vedere fino all'invasione dell'Ucraina, e Roma si lega sempre più stretta il cappio del gas russo intorno al collo.
Il 20 febbraio 2014 le truppe russe senza insegne entrano nei villaggi e nelle città della Crimea. Ma quasi nessuno prende seriamente le distanze dal Cremlino e taglia il cordone con Mosca. Non lo fa Berlusconi, amico di Putin, non lo fa Salvini che anzi si lancia in avventurosi e spericolati elogi del leader russo che oggi, nello specchietto retrovisore di questi otto anni, appaiono lunari.
Ma anche a sinistra i rapporti rimangono stretti. Forse non se ne può fare a meno, forse c'è l'illusione di poter correggere la rotta che diventa una deriva, forse si sottovaluta la realtà.
Il 18 dicembre 2014, qualche mese dopo la conquista della Crimea, portata via all'Ucraina con la forza anche se senza sparare un colpo, è il volonteroso Presidente della Fondazione per la cooperazione fra i popoli Romano Prodi ad essere ricevuto al Cremlino. Un colloquio lunghissimo con l'agenda satura di argomenti esplosivi: appunto l'Ucraina, appena violata nella sua integrità e a cui è stata amputata la penisola di Yalta e Sebastopoli, e poi il Medio Oriente e l'Africa.
Per carità, discutere e magari provare a far valere le ragioni della pace e del diritto internazionale non è una colpa, ci mancherebbe, certo il meeting fra i due non può essere catalogato alla voce routine. A novembre 2017, Prodi è di nuovo ospite dello zar a Sochi, sul Mar Nero, e in quell'occasione la Tass, l'agenzia che oggi capovolge la cronaca e trasforma i lupi in agnelli, fa notare che Prodi e Putin sono collegati da relazioni amichevoli di vecchia data. La visita del resto è privata e Putin in persona sottolinea quella relazione speciale: «Qualsiasi siano le posizioni che occupiamo, ovunque lavoriamo, siamo persone, prima di tutto». Giusto.
Una frase sibillina che può essere letta in molti modi, ma certo l'impressione che si ricava alla fine di quel meeting è in qualche modo l'accreditamento di Putin alle nostre latitudini. I politici, anche quelli più autorevoli come Prodi, lo frequentano e quei meeting sono inevitabilmente, al di là delle intenzioni, una cortina fumogena sulla sequenza di atrocità commessa da Mosca: la repressione del dissenso, il sangue versato dai giornalisti, l'orrore della Cecenia, la guerra in Georgia già nel 2008 e tutto il resto.
Anzi, alla fine di quell'incontro, Putin accosta Prodi a Silvio Berlusconi: «Come lui ha sempre guidato gli interessi dell'Italia e ha creduto che per mantenerli dovrebbero essere mantenute buone relazioni con la Russia. Per questo - conclude Putin - ho una relazione amichevole con entrambi i politici». Parole che oggi imbarazzano.
C'era una destra filo russa, ma c'era anche una sinistra ottimista e a tratti euforica, pure se con toni discreti e passi felpati.
Nell'immaginario collettivo restano i fuochi d'artificio salviniani e i colbacchi della coppia Putin-Berlusconi. Ma l'album, alto così, è zeppo di foto di vecchi compagni, immortalati con lo zar: da Massimo D'Alema - alle prese nel 2006 con l'oscuro caso Livtinenko - ai giorni nostri. In una successione di speranze e abbagli.
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