Una conferenza internazionale di pace. A Parigi. Il 13 dicembre. Un'ipotesi di regalo di Natale per il mondo che viene impacchettata da Joe Biden e Emmanuel Macron al termine del loro incontro nello studio Ovale, a Washington.
Che sia davvero una buona notizia è tutto da dimostrare. Che cosa sarà esattamente questo appuntamento parigino? Ci sarà o non ci sarà la Russia? Il presidente statunitense si dice pronto «a parlare con Putin se mostra segnali di volere cessare la guerra, ma finora non lo ha fatto». Ma immaginiamo che negli appena undici giorni che mancano al P-Day difficilmente lo Zar mostrerà resipiscenza dopo 282 giorni di una guerra insensata. Anche perché ieri il capo della sua diplomazia, il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ha recapitato una serie di messaggi passivo-aggressivi agli Stati Uniti, all'Europa, alla Nato, perfino al Papa, attribuendo loro la responsabilità della mancata partenza di un negoziato sulla fine della guerra in Ucraina e non dando certo un contributo alla possibilità che questo accada.
Lavrov ce l'ha con tutti, anche con l'Italia. Che cita due volte nella conferenza stampa in cui sciorina il pensiero del Cremlino. La prima quando nomina l'omologo Antonio Tajani, titolare della Farnesina, per dire che «sta facendo dichiarazioni relative a idee indirizzate a cercare una soluzione in Ucraina, ma non ho sentito proposte concrete». La seconda quando inserisce l'Italia tra i Paesi che, assieme a Gran Bretagna, Germania «e altri Paesi della Nato» ospitano sul loro territorio «l'addestramento militare degli ucraini».
Lavrov un po' chiude un po' apre, in uno snervante tira e molla dialettico. Concede che «se e quando l'Occidente capirà che è meglio coesistere sulla base di fondamenta concordate, ascolteremo quello che hanno da proporre» ma poi sbertuccia i leader della diplomazia europea sostenendo che il dialogo partirà «quando appariranno delle persone sensate». Bacchetta papa Francesco per le sue frasi «non cristiane» sulle crudeltà commesse da due nazionalità della Russia, cioè i Ceceni e i Buriati. Accusa Washington di aver violato la riservatezza di un recente colloquio ad Ankara tra il capo della Cia Bill Burns e quello dei servizi d'intelligence esterni russi Serghei Naryshkin che «doveva essere un canale assolutamente riservato» ma «appena sono arrivati ad Ankara immediatamente è stato fatto conoscere». Si spinge a rimpiangere John Kerry, ex segretario di Stato con cui «ci siamo incontrati più di 50 volte» e «adesso aiuterebbe a risolvere i problemi insieme».
Insomma, Lavrov parla tanto ma non sembra davvero credere al fatto che russi e occidentali possano sedere a breve allo stesso tavolo per discutere di pace. In fondo è la stessa sfiducia che, prima dell'annuncio della conferenza internazionale, mostrava Macron in un'intervista alla Abc nella quale affermava che «è ancora possibile» un tavolo negoziale con Vladimir Putin ma che comunque «una pace giusta non è una pace che può venire imposta agli ucraini».
E pensare che la maggioranza dei russi ai colloqui di pace crede eccome, almeno secondo un sondaggio a uso interno del Cremlino i cui risultati sono stati resi noti dalla testata indipendente Meduza: il 55 per cento dei «sudditi» di Putin sarebbe favorevole ai colloqui di pace con l'Ucraina, mentre solo il 25 per cento di loro
vorrebbe la continuazione della guerra. A luglio le percentuali erano rispettivamente 32 e 57. Alla faccia della legge bavaglio per cui criticare la presunta «operazione speciale» in Ucraina può costare fino a 15 anni di galera.
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