Piuttosto che la Bundesbank, meglio Frate Indovino. O il Mago Otelma. Perché la più potente banca centrale nazionale dell'Eurozona, la Grande Burattinaia che tira i fili della Bce, in fatto di previsioni non ne azzecca una. Appena lo scorso giugno, mentre la Germania già boccheggiava in recessione, il capo della Buba Joachim Nagel si esibiva in uno spericolato vaticinio da narrazione fantasy: «L'economia tedesca si sta liberando dalla fase di debolezza congiunturale. Non solo i consumi privati riprenderanno gradualmente, ma miglioreranno anche le esportazioni». Mancava giusto «anche i muti potranno parlare», ma l'anno che verrà non è poi arrivato.
Sei mesi dopo, lo scenario reale è infatti un «tantino» diverso da come l'epigono di Jens Weidmann se l'era immaginato: gli oltre 60mila esuberi annunciati sono l'epitome dello sfacelo di un Paese e solo una parte dell'onda distruttiva ramificatasi nei gangli produttivi e che da ieri, con le 7mila lettere di licenziamento messe in canna dal gruppo Evonik, si è estesa anche al settore chimico.
Dell'Auferstehung, la resurrezione alla tedesca, non c'è traccia. Semmai, solo la teoria dei disoccupati che va allungandosi come un elastico teso: quasi tre milioni di persone senza un lavoro, verosimilmente pronte a scaricare nelle urne di febbraio rabbia e frustrazione. Tutte più o meno vittime di un governo «semaforo» che, in realtà, ha dato sempre il verde alle rigidità del ministro delle Finanze, Christian Lindner. Sull'ortodossia contabile la Germania ha finito per schiantarsi. L'ossessione per la Schuldenbremse, ovvero la regola con cui il deficit è tenuto al guinzaglio (max, uno 0,34% del Pil), ha impedito di pigiare sul pedale degli investimenti proprio nel momento in cui la Germania avrebbe dovuto seminare il terreno per la crescita. È la stessa ossessione per i conti in ordine che ha finito per considerare come un inciampo temporaneo quella che per le (ex) punte di diamante del Made in Deutschland è invece una crisi strutturale generata da sovracapacità, saturazione di mercato, perdita di potere d'acquisto e da una rete infrastrutturale inadeguata.
Così, di errore in errore, anche il nostro Nagel è stato costretto a un bagno di realtà rettificando ieri le stime sgangherate di giugno. Secondo le ultime previsioni della Bundesbank, quest'anno il Pil reale diminuirà dello 0,2% (recessione bis) e crescerà solo dello 0,2% l'anno prossimo. Altri due anni di buio cui sommare un altro biennio di espansione asfittica (+0,8% e +0,9%, rispettivamente, nel 2026 e '27), con sicuri danni collaterali per l'intera Eurozona. Al di là delle cifre, rispetto a un semestre fa sembra di sentir parlare un altro: «L'economia tedesca - confessa il banchiere - è alle prese non solo con persistenti difficoltà economiche, ma anche con problemi strutturali» che «mettono a dura prova» l'industria, le sue attività di esportazione, gli investimenti e frenano i consumi. Nagel è rassegnato: «Contrariamente alle previsioni precedenti, non saranno motore della ripresa». Il leader della Buba sembra però aver capito la lezione: non solo ha rottamato il tabù del disavanzo qualche giorno fa («approccio molto intelligente» ampliare lo spazio fiscale per fare investimenti), ma già avverte che le ultime previsioni potrebbero rivelarsi «eccessivamente ottimistiche».
Colpa del mondo che non gira come dovrebbe: ci sono le minacce legate al crescente protezionismo (con un aumento dei dazi Usa la Germania perderebbe dall'1,3% all'1,4% della produzione fino al 2027), i conflitti geopolitici e l'impatto del cambiamento strutturale sull'economia tedesca. Tutta roba tossica che, naturalmente, in giugno non c'era. Come avrebbe detto il maestro Manzi, «non è mai troppo tardi per imparare».
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