Diceva il generale cinese Sun Tzu, maestro riconosciuto nell'arte della guerra, che «bisogna sempre fare in modo di lasciare al nemico una porta da cui scappare». Bisogna, cioè, sempre lasciare una via d'uscita all'avversario per evitare che le guerre si protraggano fino all'ultimo sangue. È quello che molti analisti suggeriscono oggi: consentire a Putin di sedersi al tavolo della pace senza perdere la faccia. Proposito razionale, che però mal si concilia con la retorica di molti leader occidentali. Boris Johnson: «Putin è un barbaro dittatore, lo processeremo per crimini di guerra». Joe Biden: «Non intendo parlare con Putin, è un dittatore assassino e la pagherà cara». E poi c'è Luigi Di Maio: «Putin è peggio di un animale, è atroce».
Ammesso, dunque, e non concesso, che Putin sia o possa a breve trovarsi nelle condizioni psicologiche e politiche per negoziare la pace, vien da chiedersi se in analoghe condizioni potrebbero trovarsi i suoi interlocutori. Il problema non nasce oggi. Dopo la carneficina della Prima guerra mondiale, sulla spinta dell'idealismo del presidente americano Woodrow Wilson, con il patto Briand-Kellogg la comunità internazionale si diede un obiettivo a dir poco ambizioso: mettere al bando la guerra. Non funzionò. Le guerre si sono continuate a fare, ma per farle digerire alle rispettive opinioni pubbliche da quel momento i leader occidentali hanno dovuto prospettarle come un'Armageddon: lo scontro finale tra il Bene e il Male assoluti. Il nemico è il Male assoluto. Un folle, un sadico il Diavolo. E con il Diavolo non ci si siede al tavolo della pace: lo si distrugge e basta.
Ne risulta che trattare la pace è diventato quasi impossibile e le guerre si protraggono più del dovuto. Anche perché, ancora una volta sulla spinta dei migliori sentimenti, dal 2002 è operativa la Corte penale internazionale, che con i tempi della giustizia, notoriamente più lunghi di quelli della politica, si prefigge di perseguire i genocidi, i crimini contro l'umanità e i crimini di guerra. Il Diavolo, dunque, sa che, se anche gli fosse possibile trattare la resa, da un momento all'altro potrebbe ritrovarsi alla sbarra dell'Aia nel ruolo, indifendibile, di un Adolf Hitler.
È questo il contesto «culturale» in cui si svolge la guerra russa in Ucraina. Perciò, se c'è una logica, vien da pensare che, non avendo alcuna intenzione di entrare in guerra, le potenze occidentali confidino in un 25 luglio.
La scommessa è che le sanzioni finanziarie e le sollevazioni popolari inducano i vertici militari e i servizi di intelligence a far fuori Putin come il Gran Consiglio del Fascismo fece fuori Mussolini. Ma non politicamente, fisicamente.
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