«Torturatori» «invidiosi, collusi». Metti due politici sullo stesso palco, uno che ha avuto la carriera stroncata per via giudiziaria, uno che ha rischiato di fare la stessa fine: ed è inevitabile che ad uscirne non sia un ritratto edificante del ruolo che la magistratura ha svolto in questi anni in Italia. Uno è Claudio Martelli, già vicesegretario del partito socialista e ministro della Giustizia, travolto da Mani Pulite: l'altro è Matteo Renzi, che al sistema della gogna giudiziaria ha dedicato un libro. Che il loro vissuto di maltrattati dalle toghe lo portano sul palco, se lo scambiano tra rimpalli e giudizi severi. E tutto ruota intorno al punto più alto e drammatico dello strapotere giudiziario di questi quarant'anni, la distruzione della carriera di Giovanni Falcone ad opera delle correnti organizzate dell'Associazione nazionale magistrati e del Csm.
Al trattamento che i colleghi riservarono a Falcone, che lui aveva portato a lavorare al suo fianco al ministero, Martelli ha dedicato trecento pagine di libro, «Vita e persecuzione di Giovanni Falcone». Dentro ci sono racconti lievi, quasi sereni: come il primo incontro di Falcone, «barba folta da hipster», che - e oggi sarebbe impensabile - va a incontrare il vice di Bettino Craxi, curioso di conoscerlo. Ieri sul palco Martelli riporta le scene ipocrite di oggi, nelle commemorazioni per il trentennale della strage di Capaci: «Sono stato invitato a cerimonie per l'anniversario della Direzione nazionale antimafia dagli stessi magistrati che avevano scioperato contro la sua istituzione», «Sono andato a Palermo e mi sono trovato davanti Leoluca Orlando Cascio, lo stesso che accusava Falcone di tenere nascoste in un cassetto le verità sulle uccisioni di Dalla Chiesa e Lima».
Il problema, secondo Renzi e Martelli, è che dietro questa parata di ipocrisia nazionale su Falcone (e dietro quella imminente su Borsellino) si celebra una gigantesca fake news, quella cui pure Renzi confessa di essersi abbeverato, «la storia per cui mafia e Stato si sovrapponevano», «la mia generazione è cresciuta con questa storia, anzi non c'era nessun altra storia possibile, era una storia unica». La storia per cui era la politica a governare le cose mafiose. La storia che Falcone, nel suo primo incontro con Martelli, stronca dopo pochi minuti: «La mafia obbedisce solo alla mafia». «Una storia - dice Renzi - che Martelli smonta da protagonista». Corollario: «Falcone è stato ucciso dalla mafia, punto».
Il problema è che questa contro-narrazione porta con sè le storie di ieri e quelle di oggi, dal Renzi pedinato all'autogrill alle indagini e ai processi sulla presunta trattativa Stato-Mafia. E poi ancora un passo più indietro, al temibile 1992 dove, si incrociano le indagini di Mani Pulite e le stragi di mafia: e tutto si mischia e si intreccia, Martelli si dimette per un avviso di garanzia, muore Falcone e poi Borsellino, e che un filo leghi tutto Renzi sembra esserne convinto ma quale sia il filo non lo sa, «perché alla fine del libro di Martelli hai più dubbi che alla pagina uno».
Così l'unica certezza resta il trattamento indegno riservato a Falcone e raccontato da Martelli da testimone oculare, il linciaggio in vita da parte delle correnti, prima la bocciatura per l'Ufficio istruzione di Palermo, poi il trattamento vergognoso dai colleghi che quando si candida («sbagliando») al Csm gli danno cinquantun voti, uno schiaffo. Martelli scomoda un paragone importante: «A uccidere Cristo fu un soldato romano che gli infilò la lancia. Quel soldato è la mafia.
Ma a crocifiggerlo erano stati altri». I magistrati organizzati, i loro referenti politici. «Quelli della Dc e del Pci che dopo il fallito attentato dell'Addaura nei salotti palermitani sghignazzavano dicendo che se lo era fatto da solo».
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