
Nel 1991, un corteo automobilistico scortava un rabbino ebreo per Crown Heights a Brooklyn. Una delle vetture, dopo essersi staccata da un convoglio, ignorò un semaforo rosso e si scontrò con un altro veicolo che, scaraventato sul marciapiede, travolse due bambini afroamericani: uno riportò ferite, l'altro perse la vita. Nel quartiere divampò subito una rivolta, con gruppi di residenti afroamericani che presero di mira le istituzioni ebraiche. L'indomani, un gruppo di giovani neri aggredì, accoltellò e pestò a morte uno studente ebreo neolaureato. Non c'entrava nulla. L'inasprirsi delle tensioni fece emergere Al Sharpton, figura emblematica delle battaglie razziali, che orchestrò manifestazioni sul luogo dell'incidente e dipinse gli ebrei come sinistri «mercanti di diamanti», responsabili dello sfruttamento globale della popolazione nera. Seguirono ulteriori saccheggi, devastazioni e violenze.
Facciamo un balzo verso il presente. Hamas ha scatenato la sua offensiva terroristica contro Israele il 7 ottobre 2023, creando terreno fertile per un'altra guerra di propaganda. Negli Stati Uniti, accademici progressisti hanno colto l'occasione per mobilitare sostegno alla «decolonizzazione» di Israele mentre, nel mondo digitale, è riemerso un nuovo antisemitismo. Diversi influenti commentatori della rete tra cui Kanye West (nella foto), Candace Owens e Andrew Tate hanno cavalcato l'onda dell'attenzione generata dal 7 ottobre per disseminare teorie cospirative e, particolarmente nel caso di West, un antisemitismo dichiarato, attraverso podcast e piattaforme social, tutto questo apparentemente da una prospettiva «conservatrice».
I due episodi offrono un interessante spunto di riflessione. L'antisemitismo è una piaga antica, ma assume sembianze mutevoli nel corso della storia, plasmato dalla cultura, dal linguaggio e dalle tecnologie dell'epoca. Nel caso odierno, assistiamo a un antisemitismo risorgente che ha ibridato le dinamiche politiche e si perpetua nel cyberspazio. In sintesi, le sommosse di Crown Heights sono state tradotte in codice digitale.
La prima chiave di lettura è comprendere che l'attivismo di Sharpton rappresentava una forma di politica etnica tangibile, calibrata per l'era televisiva. La sua narrazione a Crown Heights affondava le radici in un risentimento specifico, contro individui identificabili, in un quartiere circoscritto. Traeva forza da uno schema tipicamente progressista: gli ebrei opprimevano i neri indigenti e le istituzioni favorivano «intrusi bianchi» a discapito delle minoranze autoctone. L'obiettivo di Sharpton era concreto: perseguiva la condanna dell'autista e, più ampiamente, finanziamenti per la sua organizzazione, che operava alla stregua di un sofisticato racket di protezione.
Il nuovo antisemitismo ha intrapreso una traiettoria diversa. I fautori di questo movimento non sono attivisti politici, bensì «influencer» dei social media, che hanno edificato una narrazione non su uno schema oppressori/oppressi tipico della sinistra, ma su teorie cospirative diffuse e codificate a destra. Secondo questi influencer, gli ebrei avrebbero soggiogato i media americani, saturato la società di pornografia e orchestrato ricatti a sfondo sessuale per garantire l'appoggio a Israele. Anche il registro di questa campagna presenta tratti inediti. Mentre Sharpton si sforzava di trasmettere un senso di indignazione autentica, gli influencer di destra hanno adottato un tono distaccato, ironico e frammentario caratteristiche distintive del discorso postmoderno. Quando Kanye West pubblicizza una maglietta con impressa una svastica, non lo fa perché sostiene un movimento neonazista strutturato, ma perché simboleggia la trasgressione e funge da esca per la censura digitale, consentendogli di incarnare il ruolo della vittima. Nel mondo virtuale, la narrazione si propaga attraverso network progressisti, che la ritengono utile per erodere il sostegno a Israele, e attraverso circuiti conservatori, che la considerano efficace per ampliare il proprio seguito. Il tono ironico, naturalmente, non costituisce un'attenuante per West e i suoi epigoni. Né implica che le loro narrazioni rimarranno confinate alla dimensione digitale. Gli ebrei americani temono, a ragion veduta, che questo antisemitismo postmoderno possa traboccare nel mondo reale e deflagrare in violenza, come già avvenuto in Europa e con la strage nella sinagoga Tree of Life a Pittsburgh. Le dinamiche di tale violenza rispecchiano anche le complessità della nuova cultura digitale. A differenza della sommossa di Crown Heights, dove la retorica di Sharpton incitava direttamente la folla, il nesso tra il discorso online e gli atti di violenza memetica e decentralizzata appare spesso sfumato.
Si pone anche la questione del «cui bono»: a chi giova?. La risposta immediata è che gli ebrei offrono un capro espiatorio conveniente: Kanye West può incolpare un «medico ebreo» per le conseguenze del suo disturbo bipolare; Andrew Tate può attribuire la responsabilità delle sue vicissitudini giudiziarie a «The Matrix». Ma esiste anche un'altra lettura, che ricalca il paradigma di Sharpton: il profitto. La rete premia lo scandalo, lo shock e la viralità, e le teorie cospirative godono di una crescente domanda di mercato. Candace Owens non è mai stata così influente, trasformando ogni controversia e accusa in nuove visualizzazioni, seguaci, abbonamenti e introiti. Questa problematica non ammette soluzioni semplicistiche, certamente non la censura digitale. L'approccio più assennato richiede pazienza: confutare le narrazioni antisemite e forgiare un establishment capace sia di catalizzare l'attenzione sia di salvaguardare i confini della decenza.
Le ideologie antisemite possono risultare redditizie nell'economia digitale, ma si rivelano tossiche nell'arena politica. La destra dovrebbe respingerle e prendere le distanze dai loro promotori, proprio come fece con Sharpton una generazione addietro.*Autore di «America's Cultural Revolution»
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