Tra doppio turno e premio di maggioranza: l'alchimia per l'elezione diretta del premier

Ogni sistema può avvantaggiare una coalizione. Il nodo Consulta

Tra doppio turno e premio di maggioranza: l'alchimia per l'elezione diretta del premier
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Una legge elettorale modifica il quadro politico più di quanto possa fare una riforma costituzionale. Lo abbiamo imparato col maggioritario figlio del referendum di Mario Segni nel 1993 imposto a un sistema politico ancorato a una logica proporzionalistica da cui - nei fatti - non si è mai liberato. Con l'elezione diretta del premier all'orizzonte, qual è il sistema elettorale migliore per incarnare al meglio questa riforma? Tutto ruota attorno al famoso «premio di maggioranza» da assegnare evitando - se possibile - il doppio turno alla francese che piace alla sinistra perché polarizzerebbe i ballottaggi sul voto «contro», a dispetto della governabilità.

Difficile pensare di dare all'elettore tre schede (Camera, Senato, presidente del Consiglio), più facile assegnare il 55-58% dei seggi nelle due Camere alla coalizione con almeno il 40% dei consensi, tenendo presente la sentenza della Consulta numero 1/2014 sull'incostituzionalità del Porcellum di Roberto Calderoli e «l'eccessiva divaricazione» tra la composizione del Parlamento e la volontà dei cittadini, soprattutto quando si innesta una distorsione maggioritaria in un sistema proporzionale.

Si potrebbe pensare di dividere l'Italia (e i collegi all'Estero) in un numero di circoscrizioni, alla Camera e al Senato, pari ai parlamentari da eleggere con il premio di maggioranza. Il 55% di 400 deputati è 220, il 58% è 232. Al Senato i collegi sarebbero la metà, 110 o 116. Il primo che arriva, anche di corto muso, vince. Si potrebbe anche pensare di assegnare i 20/32 deputati e i 10/16 senatori della coalizione vincente facendo eleggere i «migliori secondi» esclusi dai collegi assegnati all'opposizione per un pugno di voti, senza secondo turno.

Si può ripescare il Mattarellum, depurato del proporzionale. La legge elettorale introdotta proprio nel 1993, ideata dall'attuale capo dello Stato Sergio Mattarella, prevedeva il 75% dei collegi eletto col maggioritario. Senza il proporzionale passerebbe il vaglio della Consulta? Sì, visto che nel 1999 il referendum abrogativo (che sfiorò il quorum, fermandosi al 49,6% con i sì al 91,5%) si poneva questo obiettivo. Quando ammise il quesito, la Consulta escluse espressamente la natura «manipolativa» del consenso, al contrario del quesito del 2020 per depurare dal proporzionale il Rosatellum (dal nome del Pd Ettore Rosato), che però prevedeva il maggioritaria per appena i 3/8 dei seggi.

Si ragiona anche sul vecchio Provincellum, il sistema elettorale in vigore fino al 2011 per l'elezione diretta del presidente delle Provincie (oggi in teoria abolite). Sarebbe il compromesso perfetto tra chi non vuole i collegi uninominali maggioritari a turno unico e chi non vuole i candidati imposti dall'alto. Ogni partito ha un suo candidato, le liste collegate al premier eletto eleggono il 60% dei seggi, ripartiti tra tutte le liste in proporzione ai voti, con una competizione proporzionale tra partiti di coalizione all'interno dei collegi.

E la Consulta non potrebbe dire di no, tenendo presente che, come ricorda al Giornale il costituzionalista Alessandro Sterpa (autore del libro Premierato all'italiana) «ogni possibile obiezione sul premio di maggioranza viene meno con l'elezione diretta del titolare del potere esecutivo», come già succede per sindaci e presidenti di Regione.

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