A una settimana esatta dal Consiglio dei ministri che venerdì scorso ha varato il premierato, il drafting legislativo di quella che Giorgia Meloni ha definito la «madre di tutte le riforme» sarebbe ancora in fase di elaborazione negli uffici di Palazzo Chigi, tanto che al Quirinale ancora non avrebbero ricevuto la versione definitiva del ddl. Non è un problema, anche perché Sergio Mattarella è all'estero per impegni istituzionali - prima la Corea del Sud, ora l'Uzbekistan - e rientrerà a Roma solo domani sera. Ma è comunque il termometro del fatto che sul provvedimento sono ancora in corso valutazioni.
D'altra parte, la riforma del premierato - così come il tema immigrazione - è una delle bandiere che Meloni vuole utilizzare nell'ormai imminente campagna elettorale per le Europee. Elezioni in programma il 9 giugno, a quasi due anni dalle Politiche del 2022 e quindi una sorta di voto di mid term. Forse è anche per questa ragione che la premier ha deciso di spingere sull'acceleratore, con Giovanbattista Fazzolari che ieri ha rivendicato la bontà di una riforma che definisce «di equilibrio». «Difficilmente - ha aggiunto il sottosegretario alla presidenza del Consiglio - la legge elettorale prevederà un premio di maggioranza del 55% non raggiungendo una soglia adeguata, che sicuramente sarà superiore al 30%». Parole che non convincono affatto le opposizioni e che lasciano qualche silenziata perplessità anche negli alleati. Aver deciso di avviare l'iter del ddl in Senato - scelta nella legittima disponibilità di Palazzo Chigi - non ha infatti trovato granché d'accordo Lega e Forza Italia. La prima avrebbero preferito la Camera, presieduta dal leghista Lorenzo Fontana (ed è il presidente che decide sull'ammissibilità degli emendamenti). Così come gli azzurri, che a Montecitorio hanno la presidenza della commissione Affari costituzionali con Nazario Pagano (e avrebbero quindi guidato l'iter del provvedimento in prima lettura). È finita che il ddl sarà calendarizzato in Senato, dove Fdi esprime non solo il presidente di Palazzo Madama, Ignazio La Russa, ma anche quello della prima Commissione (Alberto Balboni).
Meloni, insomma, ha voluto che la riforma restasse sotto il suo completo controllo. Per arginare un'opposizione che ha già annunciato le barricate (i regolamenti della Camera sono più adatti all'ostruzionismo), ma anche per evitare sorprese in casa («se utile e necessario, quando arriverà a Montecitorio sarà comunque modificabile», ha detto ieri il capogruppo di Forza Italia alla Camera, Paolo Barelli).
D'altra parte, il dibattito entrerà nel vivo proprio mentre ci si avvicina al 9 giugno. E già ora è piuttosto acceso, nonostante Meloni si sia detta disponibile a riferire in Parlamento con il «premier-time». Così come è destinato a crescere di tono lo scontro sul fronte migranti per l'intesa con l'Albania.
Un accordo che Fazzolari ha rivendicato, spiegando che «non necessita di una ratifica delle Camere» ma dicendo che il governo «è disponibile a un dibattito parlamentare» sul punto. Due appuntamenti in cui in Parlamento si respirerà già un clima da campagna elettorale.
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