Equilibri fragili e incubi nucleari

Nessuno le vuole usare, ma ormai tutti ne parlano. Il guaio è che quel "solo se" comincia a pesare davvero. È qualcosa da interpretare. Dove sta esattamente il limite dove tutto è possibile? L'unica cosa certa è che nessuno lo sa.

Equilibri fragili e incubi nucleari

Nessuno le vuole usare, ma ormai tutti ne parlano. Il guaio è che quel «solo se» comincia a pesare davvero. È qualcosa da interpretare. Dove sta esattamente il limite dove tutto è possibile? L'unica cosa certa è che nessuno lo sa. Non è segnato il confine del punto di non ritorno, lì dove comincia la dissipatio humani generis. La risposta è nelle mani degli uomini. Ora quando li senti parlare non è che ti tranquillizzano. Dmitry Peskov, portavoce di Putin, ne parla come se fosse seduto a un tavolo tra uomini d'affari, dove ognuno cerca di far capire all'altro fino a che punto è opportuno spingersi. La sua voce non ha nulla di drammatico, ma il senso delle parole dovrebbe far rabbrividire. Se questo non accade è perché nessuno ci vuole credere. L'uomo di Mosca dice: «Non vogliamo usare armi nucleari, ma lo faremo solo se la nostra esistenza fosse minacciata». Ma di chi? L'interpretazione più immediata è che Peskov si riferisca alla Russia. Per dire: non provate a ridurci come l'Ucraina. Questo di fatto significa minacciare l'esistenza di una nazione. Peskov però sa benissimo che nessuno avrà mai il coraggio e la follia di architettare una ritorsione di questo tipo. Non sono i missili la preoccupazione attuale di Mosca. È molto più concreta l'azione delle sanzioni economiche, che sta provocando un esilio dalla comunità internazionale.

C'è la possibilità che la «nostra sopravvivenza» sia invece una sorta di plurale maiestatico; non del portavoce, ma di chi rappresenta. Il noi è Putin. «La Russia sono io». Allora è un'allerta verso chi sogna di isolarlo, rovesciarlo, farlo fuori. È dopo tutto una delle ossessioni di Vladimir, il timore di finire come Gheddafi. E al Cremlino qualcosa si sta muovendo.

Tutto questo invece potrebbe essere solo un mostrare i muscoli, dall'una e dall'altra parte. L'Occidente non è mai apparso così compatto. È la cronaca della giornata di vertici di ieri. Non ci sono state posizioni troppo grigie alla Nato, al G7 e neppure al consiglio europeo di Bruxelles, dove per la prima volta era presente un presidente Usa. Niente terze vie e poche sfumature. L'intenzione è non mostrare crepe e debolezze.

Putin abbaia, Biden risponde con il «Tiger Team» pronto a rispondere all'uso di armi non convenzionali e ognuno mette in chiaro che si sta giocando con il fuoco. È la logica della deterrenza. È quello che ci ha salvato negli anni della guerra fredda. Solo che quei tempi sono lontani. Qui ci si muove senza copione, dove ogni protagonista si è messo a recitare a soggetto, quasi a testare debolezze e fragilità degli altri. È così che Pechino ha militarizzato tre atolli artificiali nel Mar Cinese Meridionale, area strategica che ha a che fare anche con Taiwan.

Sulla scena oltretutto si ripresenta, quasi offeso di essere stato dimenticato, pure Kim Jong-un. Il dittatore nordcoreano ha lanciato un missile balistico intercontinentale verso il Giappone. È sprofondato in mare a 170 chilometri dalla costa. Si sta giocando sul confine del nulla.

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