Uno scontro frontale, come non si vedeva da anni, tra i promotori di un referendum e la Chiesa cattolica, con la Conferenza episcopale che ieri scende nuovamente in campo manifestando «grave inquietudine» per una eventuale (ma assai probabile) vittoria dei sì: intorno alla raccolta di firme per la consultazione sull'eutanasia legale si sta combattendo una battaglia che coinvolge valori profondi. Ma che, almeno per ora, affronta questioni di principio anziché il contenuto vero del quesito referendario già sottoscritto da più di mezzo milione di elettori, e destinato quindi - a meno di interventi parlamentari - a portare gli italiani alle urne l'anno prossimo. Un quesito che forse neanche tutti i sottoscrittori hanno analizzato fino in fondo e che, per come è strutturato, produrrebbe conseguenze da un lato più vaste di quelle proclamate, ma da altri aspetti insufficienti a risolvere davvero il delicato tema del «fine vita».
Il testo consiste in una domanda secca: all'elettore verrà chiesto se vuole abrogare le parole «la reclusione da sei a quindici anni» dell'articolo 579 del codice penale. È l'articolo che punisce l'«omicidio del consenziente» che in questo modo risulterebbe del tutto depenalizzato, a meno che l'ucciso non sia un minorenne o comunque non sia in grado di esprimere validamente le sue volontà.
Come si vede, l'innovazione riguarderebbe non solo i casi drammatici di malati terminali o sottoposti a sofferenze intollerabili, ma chiunque. Anche un individuo perfettamente sano potrebbe chiedere di venire ammazzato, e chi eseguisse le sue volontà non andrebbe incontro ad alcuna conseguenza penale. La prima conseguenza, paradossale, è che continuerebbe a venire punito (in base all'articolo 580 del codice) chi aiuta il prossimo a suicidarsi, e non chi provvede direttamente a sopprimerlo su sua richiesta. Di fatto, lo Stato riconoscerebbe ai suoi cittadini non solo il diritto di suicidarsi, già oggi pacificamente riconosciuto (ma non sempre è stato così) ma anche quello di farsi ammazzare. Che sono evidentemente due cose diverse, visto che il primo richiede uno sforzo di volontà particolarmente intenso e a volte salvifico.
Come andrebbe dimostrato, concretamente, il consenso dell'ucciso la legge non lo dice. Le poche sentenze che hanno applicato finora l'articolo 579 si limitano a dire che la volontà di essere soppresso deve essere «seria, esplicita, non equivoca e perdurante sino al momento della commissione del fatto» e provata in maniera «chiara, univoca e convincente». Sulle modalità con cui esprimere il consenso però non esiste alcuna norma, e l'approvazione del quesito referendario renderebbe ancora più vistosa questa lacuna. Il rischio di un caos normativo, con sentenze di ogni genere di fronte a vicende drammatiche, c'è tutto.
Dall'altra parte, un sì al referendum non scioglierebbe in alcun modo i drammatici problemi connessi alla sorte di pazienti in stato vegetativo irreversibile, ovvero una parte rilevante dei soggetti a cui si pensa quando si discute di eutanasia. Visto che, come stabilito dalla Cassazione, il consenso deve essere provato «fino al momento della commissione del fatto», continuerebbero a venire punite le uccisioni di chi ha lasciato indicazioni precise in un momento precedente ma non è in grado di ribadirle «in diretta».
I buoni propositi del mezzo milione di firmatari rischiano insomma di produrre un risultato un po' eccessivo, un po' insufficiente e sicuramente confuso.
A meno che il vero obiettivo non sia in realtà smuovere la proposta di legge che sull'onda del caso di Dj Fabo ha preso piede in Parlamento, e che giace in commissione Giustizia: un testo che affronta nei dettagli i percorsi medici e burocratici per evitare il Far West del suicidio assistito, e che porta firme trasversali: dal leghista Alessandro Pagano al piddino Alessandro Zan alla Michela Rostan di Italia Viva. È il testo che la Corte Costituzionale aveva dato un anno di tempo al Parlamento per varare: invano. La paura del referendum sarà più efficace?
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