È più che fastidioso l'imbarazzo con cui si discute dell'aggressione sessuale, disgustosa e feroce, di cui sono state oggetto quattro ragazze, di cui due di diciassette anni. Le abbiamo viste terrorizzate, piangenti, da una folla di mani e di urla minacciose che le sospingevano nei tempi e nel ruolo della donna delle caverne, aggredita e vilipesa. Si percepisce nella cautela dei politici, dei movimenti femministi, della magistratura, qualcosa che somiglia alla paura. Non si vorrà mica dire, sembra suggerire la cautela, poichè quei violenti aggressori urlanti almeno in parte, secondo i video e i testimoni, parlano arabo, che si è islamofobici? che non si tiene in considerazione che la violenza contro le donne è una malattia universale, proprio anche della nostra storia? No, non è affatto così.
Ma non ci può essere selettività concettuale nel condannare la violenza contro le donne, il nostro movimento femminista non è affatto richiesto di dimenticare la violenza del maschio occidentale quando affronta quello delle masse immigrate, specie di seconda generazione. Lo sappiamo: viviamo in una società talmente sessista e violenta che solo nel 1981 il delitto d'onore veniva parificato agli altri, mentre le sue motivazioni garantivano a un italiano una pena di soli 2-3 anni. Ma la cronaca preme, Colonia è accaduta l'altro ieri, Saman Abbas la povera ragazza pakistana uccisa dallo zio a luglio, incombe sulla nostra memoria, come la Primavera Araba al Cairo, quando la giornalista del Cbs Lara Lagan fu violentata in piazza da una turba. Sarà una sconfitta storica per il femminismo se non si concentrerà su come finalmente affrontare la novità ormai immanente geograficamente della misoginia islamica, di cui si occupano Fouad Ajami, il grande storico libanese, Bernard Lewis, il maggiore storico dell'Islam, Ayan Hirsi Ali, che quasi fu uccisa con Theo Van Gogh nel 2004 quando lavorava a un film su questo tema. Il tema è nobile e importante, e non si fa certo un regalo a quei ragazzi scatenati in piazza se li si lascia liberi di colpire ancora.
Oggi Ayan, musulmana, è la leader di un movimento coraggioso che indaga come combattere la questione fondamentale di ragazzi che vengono da un mondo poligamico, separatista, dove la donna è ancora in parte sconosciuta come essere umano, e vista come oggetto sessuale, sposata a 12 anni, battuta e violentata dal marito, reclusa. Qui, il silenzio è assordante, ed è una ferita che non siano le donne per prime a dire che si deve affrontare con determinazione e con le leggi alla mano il fatto che in un mondo globalizzato giungano in grandi numeri da noi culture per cui la condizione della donna è inferiore, a volte perseguitata e vituperata come in Afghanistan o a Gaza, o in Iran. Secondo statistiche degli uffici arabi dell'Onu il 37 per cento è sottoposta a violenze, 4 su 10 vengono uccise in famiglia.
La donna è sottoposta, in tribunale vale la metà, il suo abbigliamento è codificato per nascondere il corpo, l'obbedienza è il suo destino. Ma qui, la difesa della donna, della nostra donna emancipata e femminista, deve essere d'acciaio.
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