Può un pezzo di carta adesiva, 4 per 2,5 centimetri, mettere una pezza e chiudere per sempre il buco nero (e rosso) degli Anni di Piombo? Sono passati quasi 50 anni da 29 aprile del 1975, a Milano il militante del Fronte della Gioventù Sergio Ramelli (nella foto) venne massacrato con una chiave inglese per le sue idee da almeno otto militanti della sinistra extraparlamentare, protetti a lungo da chi sapeva e ha taciuto. Il ministero del Made in Italy ha annunciato che l'anno prossimo la sua tragica fine verrà ricordata con un francobollo commemorativo. Ramelli era solo uno studente di destra di diciotto anni morto dopo 47 giorni di agonia, un martire involontario, non un violento o un assassino ma una vittima del brodo di coltura che ha annegato questo Paese nel livore, in cui c'è ancora chi sguazza. Lo si vede dalle parole usate in questi giorni contro il governo, da chi titilla le piazze, dai giustificazionisti della violenza se è contro il «nemico», che sia la polizia o Israele.
«Stiamo prendendo una china che assomiglia all'inizio di queste vicende», aveva detto nei giorni scorsi il presidente del Senato Ignazio La Russa, parlando proprio del libro che ricostruisce il tragico epilogo di Ramelli (ma non solo), Il tempo delle chiavi di Nicola Rao (edito da Piemme), scritto con postfazione del magistrato Guido Salvini.
Pensare che onorare la memoria di Ramelli faccia il gioco di una sola parte è l'errore in cui è caduta l'Anpi parlando di «culto fascista» e persino smemorata quando lamenta - sbagliando clamorosamente - che non ci siano annulli su altre stragi «nere». Un francobollo è ciò che serve per passare dal tempo delle chiavi a quello delle lettere, consegnando alla Storia il calamaio d'odio degli anni Settanta.
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