Il gioco di Hamas sulla pelle dei rapiti

Dagli islamisti una lista di 34 nomi (con due bimbi). Israele vuole prove che siano vivi

Il gioco di Hamas sulla pelle dei rapiti
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Amministrazione Biden in pressing, prima della scadenza del mandato, per ottenere un cessate il fuoco a Gaza e la liberazione degli ostaggi israeliani rapiti da Hamas e Jihad islamica il 7 ottobre 2023. Ieri il Segretario di Stato americano Blinken ha chiesto un ultimo sforzo alle parti riunite a Doha. Ma nonostante i pesi massimi inviati ieri (in Qatar sarebbe arrivato il capo del Mossad, David Barnea) i colloqui «indiretti» non registrano progressi esaustivi; se non una lista di 34 nomi che da luglio rimbalza da una redazione giornalistica all'altra senza vedere mai la luce al tavolo di Doha con i dettagli necessari a chiudere un accordo.

Tra loro, 10 donne, vari anziani e due bambini. «Vogliamo concludere tutto entro due settimane», insiste Blinken. Ma per Israele quella lista è «vecchia», smentendo così che Hamas abbia fornito un elenco aggiornato. Mancherebbero soprattutto le condizioni di salute dei nomi resi noti. I bimbi sarebbero Ariel, 5 anni, e il piccolo Kfir Bibas, i due ostaggi più giovani e gli unici minori non ancora rilasciati. Non è chiaro se siano vivi, come pure i genitori di 33 e 34 anni, anch'essi nell'elenco che vede anche la soldatessa 19enne mostrata in lacrime nell'ultimo video di Hamas e due persone rapite prima del 7 ottobre. Il movimento islamista è tornato al tavolo condendo la trattativa con una guerra psicologica fatta di video e informazioni parziali, alzando la posta chiedendo la liberazione di terroristi di spessore, e ieri sono partiti altri razzi contro Israele dal nord di Gaza. Uno su Sderot.

Netanyahu fa sapere d'essere in attesa di informazioni precise: mancano 101 israeliani, non 34. Senza garanzie, persiste lo stallo, con i familiari dei rapiti che già si appellano a Trump: «A lei, uomo più potente della terra, chiediamo di non lasciare indietro nessuno». Nella Striscia la situazione è intanto sempre più critica. Il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite (Pam) ieri ha accusato l'esercito israeliano di aver aperto il fuoco su uno dei convogli in transito a Gaza: «Aveva tutte le autorizzazioni necessarie dalle autorità israeliane, nessun ferito, ma il fatto è inaccettabile», denuncia l'Onu. E anche in Cisgiordania la situazione è tesissima, tanto che perfino l'Autorità nazionale palestinese moltiplica i raid in certe zone dove Hamas e Jihad islamica continuano a far proseliti tra i più giovani. A complicare lo scenario, ieri l'ennesimo attentato: bersagliati da spari un autobus e alcuni veicoli civili con a bordo cittadini israeliani: 3 israeliani morti, tra cui due donne, 8 i feriti. Il premier ha ordinato una caccia all'uomo casa per casa. Tre i terroristi arrestati nei territori occupati. Il clima allontana ogni tregua. Il ministro dell'ultradestra Smotrich, responsabile delle Finanze impegnato da tempo ad accrescere il controllo sulla Cisgiordania sponsorizzando nuovi insediamenti (lui stesso vive in una colonia occupata) ora vorrebbe che anche Nablus e Jenin, in Cisgiordania, ricevessero lo stesso trattamento di Jabaliya, la cittadina covo di terroristi pesantemente bombardata a Gaza, dove per il freddo ieri è morto un altro bimbo di appena 35 giorni.

Resta l'allarme anche sugli altri fronti aperti: dalle minacce yemenite a Israele da parte degli Houthi, all'ambiguità degli Hezbollah nel Sud del Libano. Ieri dal Paese dei Cedri l'inviato statunitense Hochstein ha ufficializzato che le truppe israeliane hanno iniziato a ritirarsi dalla città di confine, Naqoura. Incompiuto invece il «trasloco» delle milizie del Partito di Dio al di là del fiume Litani, come chiesto pure dal ministro Tajani, che per giovedì a Roma ha convocato un vertice con gli alleati su Siria, Iran e Medio Oriente. Parteciperà anche Blinken, in Italia con Biden.

Davanti agli ambasciatori d'Oltralpe ieri il presidente francese Macron ha definito l'Iran «la principale sfida strategica e di sicurezza» in Medio Oriente.

Mentre da Ankara il presidente turco Erdogan, tra i principali sponsor di Hamas, continua a giocare la sua partita regionale: «Abbiamo intensificato i nostri sforzi diplomatici per chiedere alla comunità internazionale di aumentare la pressione su Israele, come la Siria si è liberata da 61 anni di violenze anche la Palestina troverà la sua libertà, uno stato palestinese nascerà sicuramente».

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