I segreti di Del Vecchio. Dall'infanzia ai Martinitt alle lenti con Zuckerberg

La madre rimasta vedova non può seguirlo e lo affida all'istituto. Da qui parte la sua scalata

I segreti di Del Vecchio. Dall'infanzia ai Martinitt alle lenti con Zuckerberg

È la Milano della gente che si sveglia molto presto perché le distanze sono infinite. Nel 1935 la più grande e avanzata città del Nord Italia conta oltre un milione di abitanti, circa il doppio rispetto a vent'anni prima. Per cercare un futuro migliore per la sua famiglia Leonardo Del Vecchio senior era partito dal profondo Sud con la moglie Grazia, antesignani di una tradizione destinata a durare nei decenni, quella dei fruttivendoli pugliesi a Milano. Nel 1930 sono oltre 45mila i pugliesi emigrati a Milano. I Del Vecchio si conoscono a Trani, mamma Grazia è di un paesone dell'entroterra. Si sposano in una delle cappelle della cattedrale della città, il gioiello del romanico che si affaccia sul porto, il mare azzurro di fronte, il tufo calcareo locale che la rende immacolata.

È il 1921, la guerra è finita da due anni. Leonardo ha combattuto nel primo conflitto mondiale, torna reduce. Salvo. Si innamora di una ragazzina di Spinazzola, Grazia ha vent'anni quando si sposa. Leonardo senior è del 1885, ne ha quindici di più. A Trani nascono i loro tre primi figli, due femmine e un maschio: Rita, Giuseppina e Michele. A quel punto decidono di partire per il Nord. Siamo nei primi anni Trenta, Milano promette lavoro e un futuro migliore. Papà Del Vecchio cerca un lavoro stabile, si ritrova a fare il venditore ambulante di frutta e verdura. Un prototipo d'attività imprenditoriale, la sua. «Ohi donne», gridavano i fruttivendoli che trascinavano il proprio carretto, ovviamente a braccia, per le vie di periferia. Il regolamento comunale prevedeva che si potessero fermare sul pubblico suolo per il tempo necessario alla vendita, poi dovevano subito spostarsi. Papà Del Vecchio è uno di questi, «un ortolano per conto proprio», si legge nei registri dell'orfanotrofio.

Leonardo viene concepito che i fratelli sono già grandi, Rita è sposata. Papà Del Vecchio gira per queste strade con il suo carretto di frutta e verdura. L'inverno del 1934 è freddo. Si becca una polmonite. Muore in poche ore, a 49 anni, l'11 novembre. Mamma Grazia ha in grembo il piccolo. Porta a termine la gravidanza da sola, il 22 maggio. Grazia lo chiama come il padre scomparso, rimarrà l'unico dei fratelli Del Vecchio nato al Nord, il solo che non conoscerà mai il papà. I figli da sfamare, una vita in salita per Grazia, costretta a trovarsi un lavoro da operaia dopo la morte del marito. Dal nipote del maresciallo Radetzky, Senatore Borletti, Grazia lavora tutta la giornata. Se aggiungiamo il lungo tragitto che la porta da casa sino alla fabbrica, esce alle prime luci dell'alba e torna che fa buio. Non c'è nessuno che può badare a Leonardo, un piccolo vivace che impara ben presto ad arrangiarsi da solo. La paura è che diventi un bimbo di strada in un quartiere già noto per essere uno di quelli problematici.

«Viene dall'ambiente delle case minime», si legge nel suo fascicolo dell'orfanotrofio. Una frase perentoria, che basta a giustificare la necessità di assistenza. Nelle case minime è tutto improntato alla logica del risparmio, compresi i materiali di costruzione. Finiture non esistono, fondamenta neanche. Eppure per i Del Vecchio trasferirsi in fondo a via delle Forze Armate è già un miglioramento rispetto alla casa di ringhiera dove stavano in centro, dietro corso Como. Almeno hanno un bagno, piccolo, in casa e non lo devono dividere con gli altri vicini in fondo al ballatoio. Leonardino passa la giornata in cortile, qualche vicina o le suore dell'asilo a dargli un occhio. C'è una sorta di assistenza diffusa, tutti si conoscono, nelle difficoltà ognuno cerca di portare un po' di solidarietà a chi ha ancora meno, come i Del Vecchio. «Le case minime eran belle perché c'era un cortile dove stavano tutti i bambini, era un bel casino», mi racconta. «Mia mamma, poverina, faceva l'operaia».

E poi scoppia la guerra. Ci mancavano anche le bombe, la chiamata alle armi e la città che diventa di colpo un bersaglio. L'ultimogenito di Grazia ha cinque anni quando inizia il secondo conflitto mondiale. La piccola vita di Leonardo diventa ancora più precaria. «Eravamo una famiglia molto povera, mia mamma vedova, io l'ultimo di quattro fratelli. E poi è arrivata la guerra», racconta in una rara intervista televisiva. Grazia è sempre più preoccupata, non sa che fine potrà fare il piccolo. Quando arriva a casa dalla fabbrica, le altre donne le raccontano le marachelle del suo piccolo, le liti con i bimbi, le zuffe in cortile. Nessuno si può prendere cura di lui. «Una volta, una signora, cattiva, che al pomeriggio voleva dormire, ha buttato l'acqua su tutta la scala per non farci correre su e giù», ricorda. Ovviamente la banda delle case minime lo fa lo stesso. Leonardo cade e si taglia il sopracciglio. Mamma Grazia arriva a casa e trova il piccolo ferito, lo porta a medicare all'ospedale militare lì accanto, dove gli mettono due punti. Si rende conto che non lo può lasciare così tutto il giorno. E, intanto, dal cielo piovono ordigni.

Nel 1942 Grazia si arrende. Capisce che non può fare altrimenti. La sorella racconta a Leonardo che sono proprio la sua estrema vivacità e il fatto che non avesse un parente in grado di accudirlo a spingere Grazia a bussare alle porte dell'orfanotrofio. «La mamma, poverina, a un certo punto ha detto: Cosa devo fare? Rientrava dal lavoro e sentiva cosa avevo combinato, così ha deciso di mettermi in collegio». Per Leonardo si apre l'immenso portone di via Pitteri. Esattamente dall'altra parte della città rispetto alla sua casa minima. A piedi ci vogliono quasi tre ore. Mamma Grazia non si può neanche assentare dal lavoro per salutare Leonardo e portarlo in collegio. A ricoverarlo è la signora Rivoli, che s'impegna al pagamento delle spese. A sette anni, in tempo di guerra, Leonardo lascia la famiglia e finisce in orfanotrofio.

Un'esperienza che lo cambierà per sempre. «Sono cresciuto senza padre e in istituto. Crescere senza famiglia è qualcosa che non si può spiegare, se non lo si è vissuto. Ti segna», sono le poche parole che riesco a strappargli su quegli anni.

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