In Italia un patto sociale per tutelare tutti i salari

Un'intesa tra governo, imprese e lavoratori può disinnescare gli effetti del post globalizzazione

In Italia un patto sociale per tutelare tutti i salari
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I salari, gli stipendi, i redditi non sono gli stessi per tutti. Le donne spesso guadagnano meno degli uomini. E questo divario va superato. Fenomeni negativi come quello delle poche ore lavorate da molti, determinando il cosiddetto «lavoro povero», sono da affrontare. Ma la questione salariale è da inquadrare in una logica di non livellamento e di tutela soprattutto del ceto medio. Essa va inserita nei contesti economici e sociali di riferimento. Sono lontani i tempi in cui Luciano Lama ammise che il salario non può considerarsi una variabile indipendente in un'economia aperta. Fu all'epoca una presa di posizione sacrosanta e coraggiosa da parte del segretario della Cgil nel 1978. Peccato poi che qualche anno dopo, nel 1984, lo stesso sindacato non firmò l'accordo sulla scala mobile con Cisl e Uil. Accordo che fu trasformato nel «decreto di San Valentino» dal Governo Craxi per interrompere l'automatismo di rivalutazione automatica delle retribuzioni dei dipendenti. Lo scopo era fermare la spirale inflazionistica con il conseguente aumento dei prezzi che metteva in crisi il potere d'acquisto dei lavoratori. L'inflazione calò, il Pci perse il referendum che aveva indetto per l'abrogazione della norma. Circa dieci anni dopo, i sindacati confederali e il governo Ciampi firmarono il Protocollo di luglio del '93 sulla politica dei redditi. Raggiungimento di un tasso d'inflazione allineato alla media dei Paesi comunitari, riduzione del debito e del deficit, stabilità valutaria erano i principali obiettivi dell'accordo. Nel mondo di oggi, pur avendo presente le differenze nei contenuti, è necessario riprendere quel metodo «concertativo» per definire investimenti, salari, aumento dell'occupazione, piani di formazione e di welfare, creazione e redistribuzione della produttività, efficienza della Pubblica Amministrazione in un quadro d'insieme. Anche la vicenda dei dazi americani si affronterebbe meglio in un contesto di condivisione degli obiettivi delle scelte tra governo, imprese e lavoratori. Il recentissimo rapporto dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) ha evidenziato che i salari reali in Italia hanno una dinamica negativa nel lungo periodo, con salari inferiori a quelli del 2008. Sono diminuiti nel 2022 e 2023, tornando a crescere nel 2024. Questo miglioramento è dovuto ai principali contratti nazionali firmati l'anno scorso. Ora bisogna continuare a dare fiducia alla contrattazione. In un momento quantitativamente positivo per l'occupazione, come testimoniano gli ultimi dati dell'Istat, la priorità è prendersi cura di un lavoro di qualità. L'obiettivo è aumentare i salari medi evitando anche per quelli minimi la cessione di sovranità regolatoria a iniziative legislative. Va incentivato il secondo livello della contrattazione, il vero incompiuto dai tempi dell'accordo del '93, per aumentare produttività e stipendi con un approccio sussidiario. Gli accordi decentrati, infatti, sono più vicini ai bisogni dei lavoratori, alle esigenze delle aziende, alle necessità dei territori, a cominciare dalle differenze del costo della vita e dell'offerta dei servizi, alla possibilità di premiare il merito e abbattere i divari di genere. L'economista Ezio Tarantelli, prima di essere barbaramente ucciso dalle Brigate Rosse quarant'anni fa, scriveva che contrattazione aziendale e un «piano di collaborazione» macroeconomico dovevano coesistere. È da elaborare un «patto sociale per l'Italia» tra imprese, lavoratori e Governo.

Patto che ha sullo sfondo la crisi della natalità, la carenza di offerta di occupazione, i bisogni di assistenza di una popolazione sempre più avanti negli anni, la necessità di un sistema di accompagnamento e formazione dei giovani adeguato ai cambiamenti epocali che stiamo vivendo.

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