Avranno molto da dirsi il presidente iraniano Ebraim Raisi e la sua controparte turca Recep Tayyp Erdogan, quando si incontreranno il 4 gennaio ad Ankara. Tutti e due evidentemente pensano che sia il momento giusto per parlare della guerra: ne hanno una in comune nonostante siano uno sciita e l'altro sunnita, quella contro Israele. Abbracciare Hamas, per loro è un'abitudine. Il tema fissato per il 4 è tipico da «asse della resistenza»: Erdogan non ne fa ufficialmente parte, conta sempre su chi spera di recuperarlo. Fino a poco tempo fa giocava sul crinale di una doppia appartenenza al mondo occidentale e alla Fratellanza Musulmana, ma la Turchia fa parte nella Nato. Hamas gli è sempre piaciuto, lo ha ospitato e aiutato, non ha mai condannato il grande pogrom antisemita del 7 ottobre. Poi ieri ha superato se stesso: «Non c'è differenza fra le azioni di Netanyahu e quelle di Hitler». Netanyahu gli ha risposto ricordandogli il suo genocidio di curdi e il record di giornalisti dissidenti in prigione. Ma non servirà: che Israele sia come la Germania di Hitler, Erdogan l'aveva già detto nel 2014. A luglio ad Ankara ha tenuto una riunione con Ismail Haniyeh e con Abu Mazen, insieme. Cioè, seisettimane prima del 7 ottobre discutevano con Erdogan: non è stato ancora notato.
A rivendicare ieri, forse incautamente, la firma della carneficina è stato il generale della Guardia Rivoluzionaria, Ramadan Sharif. In una dichiarazione riportata da Al Jazeera fa sapere che il massacro è stata una risposta all'assassinio del grande leader Qassem Suleimani, compiuto, sembra, da emissari americani. Questo dopo che due giorni fa il generale iraniano che soprintende alla Siria, cioè alla strategia dal confine di Israele e alle armi a Hezbollah e altri «proxy», è stato assassinato. Ma Hamas ha con rispetto smentito la dichiarazione, anche se è evidente che il 7 ottobre è il primo grande passo pubblico di distruzione di Israele che l'Iran ha compiuto dopo anni di costruzione di un potere sunnita-sciita, grande stratega appunto Suleimani. Ne fanno parte il Libano, i palestinesi, lo Yemen, la Siria, l'Irak, si conta anche su amici discreti tipo il Qatar, e su un grande sfondo antioccidentale che infatti non ha condannato Hamas (la Russia e la Cina).
Hamas è ovvio, rivendica di aver agito da sola, per la moschea di Al Aqsa, «contro l'occupazione». Ma è noto che l'Iran gli fornisca il 93% del budget, che le armi iraniane sono ovunque a Gaza, che Hamas stesso ha più volte ringraziato dopo l'attacco. La guerra è la bandiera della dichiarazione di Khomeini: «Noi sosterremo e assisteremo ogni gruppo che combatte il regime sionista», e di Khamenei: «La questione palestinese non è geopolitica, è un credo, una questione di fede». Questo mette l'Iran in testa a una coalizione che rompe lo storico screzio fra sunniti e sciiti in nome di una battaglia sacra. Erdogan si entusiasma nell'odio antisemita perché sente che quel fronte è forte e deciso: gli Houthi mettono a rischio il commercio internazionale, in Siria e in Irak milizie sciite divengono parte della macchina di predominio e provocazione antioccidentale, in India vediamo attacchi terroristici contro l'ambasciata di Israele. C'è molta fantasia strategica mentre Israele combatte una vera guerra di liberazione e sul territorio europeo e americano cresce una giungla di antisemitismo.
L'Iran ha destabilizzato le aree di antica influenza egiziana e saudita, i leader cauti non si sentono abbastanza sostenuti da un'America che non osa dare un nome alla guerra che l'Iran ormai alla vigilia del potere atomico, ha dichiarato all'Occidente. Una guerra dura, che affronti il pericolo che il mondo corre, e prenda le misure necessarie per difenderlo.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.