L'opposizione senza bussola: tre linee diverse sulla guerra

Il valzer delle mozioni, da quella anti-Ucraina dei 5s all'atlantismo del Terzo Polo. E il Pd sta nel mezzo

L'opposizione senza bussola: tre linee diverse sulla guerra

Passa la risoluzione di maggioranza (votata anche dal Terzo Polo nei passaggi sull'appoggio all'Ucraina), il centrosinistra si divide su tre linee diverse, la Lega vota con la maggioranza ma in aula dice il contrario della premier, Giorgia Meloni assesta un notevole uppercut a Giuseppe Conte che si risente moltissimo e detta una replica assai stizzita alla sua capogruppo.

La discussione in Senato sulle comunicazioni della presidente del Consiglio, alla vigilia del Consiglio europeo, inizia con fair play ma finisce tra forti tensioni e una certa confusione sui testi da votare e le linee di divisioni nelle e tra le coalizioni. Ci si divide sui temi all'ordine del giorno del Consiglio (energia, flessibilità, patto di stabilità, immigrazione) ma è soprattutto la questione Ucraina a tenere banco e segnare le fratture più profonde, come non accade in altri paesi occidentali, evidentemente più consapevoli della posta in gioco.

A sposare la linea anti-Kiev (e inevitabilmente, anche se evitano di dichiararlo, pro-Putin) sono innanzitutto i Cinque Stelle, ansiosi di trovare un argomento su cui mettere in difficoltà il Pd e recuperare un po' di quei consensi che stanno evaporando nei sondaggi: i grillini presentano un documento (respinto) che dice no al sostegno all'Ucraina invasa. Il Terzo Polo è sul fronte opposto: «C'è una sola linea possibile - spiega in aula Carlo Calenda - il sostegno a Kiev finché Mosca non accetterà di ritirarsi e sedersi al tavolo del negoziato. È la linea di Mario Draghi, dell'Europa e dell'Occidente, che Meloni sta portando avanti con coerenza e che - su questo punto - appoggeremo nel voto». Il Pd si assesta nel mezzo: pieno sostegno a Zelensky contro l'invasore, ma condito di appelli ad «iniziative di pace» che finora non trovano alcun ascolto a Mosca, ma che servono a non rompere del tutto con 5S e rossoverdi e a non votare con la maggioranza. Ma il dem Alessandro Alfieri, che parla in aula, è molto chiaro: «Mai equidistanza, sempre dalla parte delle democrazie liberali, dalla parte del popolo ucraino e del suo legittimo diritto a difendersi». E marca con durezza la distanza dai 5S anche sul ruolo della Cina, ricordando come «il Conte 1, con la Lega, aveva dato via libera al progetto cinese di Via della Seta di Pechino, che ora affianca anche militarmente Mosca». Ma a far saltare i nervi a Conte è la premier, quando (accusata da un grillino di «prendere ordini» in Ue) ricorda spietata: «Preferirei dimettermi piuttosto che presentarmi al cospetto di un mio omologo europeo con i toni con cui Conte si rivolse ad Angela Merkel, dicendo che i 5 stelle erano ragazzi che avevano paura di scendere nei consensi ma alla fine avrebbero fatto quello che lei chiedeva». Apriti cielo: l'offesissimo ex premier manda la fida Alessandra Maiorino a riversare la sua stizza su Meloni, accusandola di «farsi dettare la politica da Bruxelles e Washington» (dove per fortuna non c'è più il paladino di Giuseppi, Trump), di aver «fatto entrare l'Italia in guerra», di «capovolgere la realtà» nella quale (secondo lei) Conte era «andato in Europa a sfidare» gli altri paesi, tornando «con in tasca 209 miliardi».

Poi il clou, quando Maiorino asserisce che Conte «ha avuto il coraggio di dire no al Mes quando tutti lo propagavano coma la panacea». Peccato che sia stato proprio il premier 5S a firmare, nel 2020, la riforma del Mes che oggi mette nei guai Meloni, allora contraria.

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