A sera, Mario Draghi la mette giù dura e prende - metaforicamente - Giuseppe Conte per il bavero della giacchetta: o si rispettano gli impegni internazionali sulla Difesa, presi «anche dal tuo governo, ti ricordo», oppure «viene meno il patto di maggioranza». Quindi, scandisce il premier all'ex avvocato del popolo, il governo andrà avanti per la strada tracciata sul progressivo aumento degli investimenti militari, concordato fin dal 2014, e se M5s vuol mettersi di traverso ne tragga le conseguenze. Perché in ballo, spiegano da Palazzo Chigi, non c'è un ordine del giorno parlamentare che lascia il tempo che trova: c'è la credibilità del paese rispetto ai suoi alleati, in una grave crisi internazionale.
Per rendere ancora più chiara la situazione, Draghi a ora di cena sale al Colle per «aggiornare il capo dello Stato sulla vicenda degli investimenti militari». Un avvertimento chiarissimo al leader dei Cinque stelle, che da giorni specula sulla questione, vestendo i panni del «pacifista» e mettendosi di traverso sugli impegni del governo. La reazione dura di Palazzo Chigi spaventa Conte, che si affretta a giurare: «Non voglio assolutamente che vengano messi in discussione gli impegni presi», e tantomeno «vogliamo provocare una crisi di governo», ma solo «essere ascoltati». Ma ieri il capo grillino aveva scatenato i suoi al Senato contro l'ordine del giorno presentato da Fratelli d'Italia sul decreto Ucraina, che ribadiva gli impegni presi dall'Italia sulla difesa. Ordine del giorno accolto dal governo, tra gli strilli e le proteste dei grillini che chiedevano di votarlo per potersi differenziare dalla maggioranza: «È inaccettabile che il governo accolga un odg dell'opposizione senza metterlo ai voti». In verità, succede tutti i giorni visto che gli ordini del giorno sono atti parlamentari che non vincolano in alcun modo il governo, e che tutta la maggioranza condivideva il testo. Ma i 5s contavano di potersi differenziare in commissione, in modo indolore perché privo di conseguenze sull'esecutivo, per poter alimentare la demagogica campagna «anti-guerra» di Conte e provare a risalire nei disastrosi sondaggi. Mettendo il Pd in una situazione di gigantesco imbarazzo: mentre il centrodestra si ricompatta a fianco del governo su una linea filo-occidentale (con persino la Lega di Salvini allineata e coperta) il suo principale alleato va dalla parte opposta. Con il rischio, se la questione si riproponesse quando il decreto arriverà in aula domani, che Pd e M5s si troverebbero su sponde opposte, con conseguenze politiche difficili da ignorare.
Per questo dem e grillini hanno iniziato un pressing forsennato su Palazzo Chigi: «Bisogna mettere la fiducia per evitare spaccature». Un giochino «poco responsabile», dicono nel governo. Cui Draghi ha risposto sparigliando e richiamando tutti alla responsabilità, con la sponda del Colle: gli impegni presi si rispettano, punto. Altrimenti la maggioranza salta, fiducia o non fiducia.
Suona come un secco richiamo anche al Pd, che nel tentativo di salvare l'alleanza con M5s ha evitato in questi giorni di prendere le distanze dagli spericolato giochini di Conte. Ora Enrico Letta fa trapelare di seguire «con preoccupazione» la situazione, e richiama Conte a evitare «rincorse del consenso dell'ultima ora». Mentre Matteo Renzi taglia corto: «Draghi è uno statista, Conte un populista».
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