Poveri leader candidati o non candidati alle elezioni per forza, per calcolo o per caso. Da qualche mese si arrovellano come il principe Amleto sul dilemma: «Mi candido o non mi candido?». O sul rebus che ha fatto il successo di Nanni Moretti su «Ecce Bombo»: «Mi si nota più se sono in lista o se non ci sono?». Ora, però, il tempo stringe e è arrivato il tempo di decidere.
Partiamo da Giorgia Meloni che continua a tenere tutti sul filo visto che è convinta che la «suspence» porti voti. Dovrebbe sciogliere la riserva entro il 28 aprile ma molti segnali suggeriscono che la premier abbia deciso di correre. L'ultimo riguarda la decisione della sorella di non candidarsi per il Parlamento di Strasburgo: due nomi uguali in lista storpiano. Ci sono due elementi che spingono per una sua candidatura: secondo diversi sondaggi la presenza della premier porterebbe un consenso non indifferente al partito. «Addirittura un 4% in più», scommette Gianfranco Rotondi. Tradotto: un certo numero di seggi che potrebbero trasformare il premier italiano in uno dei king maker dei nuovi equilibri europei post-voto. Di contro qualche Pico della Mirandola spiega che un successo della Meloni a scapito di Matteo Salvini potrebbe spingere il leader leghista a rompere. Le solite tortuosità prive di senso: nessun sano di mente sull'onda di un insuccesso elettorale provocherebbe una crisi di governo che potrebbe portare alle elezioni anticipate.
Già, nelle decisioni dei leader c'è innanzitutto la valutazione se la loro presenza in lista può portare qualche voto o no. Secondo la maga dei sondaggi, Alessandra Ghisleri, ci sono dei nomi che possono avere questa funzione. «Dalle nostre rilevazioni risulta - dice - che una spinta per qualche punto o decimale possono darla la Meloni, la Schlein, Tajani e Renzi. Anche la Elly può fare guadagnare qualcosa, anche se non molto, al Pd». E siamo, appunto, alla Schlein. La questione della sua candidatura ha messo in subbuglio il suo partito. Solo che per la Schlein la candidatura è obbligata se vuole mantenere il ruolo di anti-Meloni che Giuseppe Conte le insidia. Inoltre se sul suo nome il Pd andrà meglio rispetto alle politiche la sua leadership potrebbe diventare meno traballante. Insomma, siamo al «o la va, o la spacca». Chi, invece, non ha mai avuto dubbi sull'idea di candidarsi è Antonio Tajani. Forza Italia nei sondaggi tira. La maggior parte delle rilevazioni la danno davanti alla Lega. Il suo leader ha tutto l'interesse ad intestarsi la vittoria. Inoltre Tajani è nel cuore del Ppe e potenzialmente è uno di quei nomi che possono allargare la classica maggioranza di Strasburgo (socialisti, liberali e popolari). Un motivo in più per esserci e giocare le sue carte pure a Bruxelles. Chi, invece, non ci pensa proprio è Matteo Salvini. Il momento non è semplice per lui e consiglia di mettere da parte il carattere irruento e di inabissarsi come i sommergibili. Se fosse in lista e il Carroccio andasse peggio delle previsioni diversi nella Lega potrebbero mettere in discussione la sua leadership.
E arriviamo a Renzi. Ufficialmente non ha ancora deciso. Da una parte gli piacerebbe per avere un ruolo nei giochi che decideranno la nomenklatura europea che avranno ripercussioni anche in Italia. Dall'altra c'è una valutazione squisitamente politica: se l'alleanza supererà la soglia del 4% il merito sarà di tutti; qualora non riuscisse e non fosse in lista, si può star sicuri anche se è ingiusto, che molti addosserebbero la colpa a lui. Speculare a lui è Calenda. Deciderà martedì. Ha ripetuto diverse volte che non sarà candidato. Ma il leader di Azione continua ad interrogarsi su un quesito che discende direttamente dal suo ego: mi giova o non mi giova? Certo per Azione che ha il suo nome nel simbolo l'assenza del leader potrebbe rivelarsi penalizzante.
E il non centrare l'obiettivo del 4% decreterebbe il fallimento di quest'esperienza e determinerebbe il fuggi fuggi generale. Questa è la ratio. Solo che la «ratio» (vedi il no all'alleanza con Bonino e Renzi) spesso nelle scelte di Calenda è assente.
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