«L'ho fatto, non me ne pento per un secondo». A un anno esatto dal suo arresto, Alexey Navalny, fa sentire la sua voce dal carcere in cui è rinchiuso. Dice di non rimpiangere la decisione di essere tornato in Russia per consegnarsi a una praticamente certa prigionia. Il 17 gennaio 2021, al momento stesso del suo arrivo dalla Germania, dove era stato curato per un avvelenamento quasi certamente opera dei servizi di sicurezza (ma un'inchiesta ufficiale non è mai stata nemmeno aperta), fu arrestato all'aeroporto di Mosca.
La motivazione ufficiale era quella di una vecchia condanna, ma la Corte Europea per i diritti dell'uomo ha dichiarato che la vicenda, (per la quale è rimasto in carcere a lungo anche il fratello di Alexej, Oleg), è stata fabbricata ad arte per motivi politici.
«Non sono riuscito a fare un solo passo nel mio Paese da uomo libero. Sono stato arrestato persino prima del controllo alla frontiera», dice oggi l'oppositore del Cremlino. «Dopo aver scontato il mio primo anno di prigione, voglio dire a tutti esattamente quello che ho gridato a chi si era radunato fuori dal tribunale quando una scorta mi ha portato a un furgone della polizia: non abbiate paura di niente. Questo è il nostro Paese e non ne abbiamo un altro».
Navalny è oggi nella prigione di Pokrov, un centinaio di chilometri a est di Mosca. Vladimir Putin, rispondendo a una domanda, disse a suo tempo che non avrebbe certo avuto un trattamento preferenziale. Così è stato. Il carcere, per detenuti comuni, è a regime duro: a quanto pare le guardie hanno ricevuto l'ordine di affiancargli prigionieri dal comportamento difficile e indisciplinato. Ai suoi avvocati è però concesso di fargli visita con cadenza quasi quotidiana, ed è così che, in qualche modo, Navalny mantiene i rapporti con il mondo.
Il capo della diplomazia Ue, Josep Borrell, nell'anniversario dell'arresto, ha chiesto il suo rilascio immediato e incondizionato: «L'Unione Europea è stata chiara nel considerare l'accusa e il verdetto come politicamente motivati». Ma nel frattempo il movimento politico che a Navalny fa capo è stato totalmente smantellato dalla repressione del Cremlino: da tempo era stato inserito nella categoria dei cosiddetti «agenti stranieri», qualifica che comporta la pratica impossibilità di operare in Russia. Dopo lo sciopero della fame di Alexey, nella primavera scorsa, il livello di attenzione si è alzato e le autorità lo hanno bollato come «gruppo estremistico». Gli aderenti sono considerati nè più nè meno terroristi: chi non è scappato all'estero è attualmente in prigione in attesa di un processo che può portare fino a 10/12 anni di carcere.
Lo stesso destino attende Navalny: contro di lui si stanno istruendo altri due procedimenti.
Uno per falso e l'altro, appunto, per terrorismo. Le pene massime previste raggiungono i 30 anni. Verso la fine dell'anno scorso l'interessato era riuscito a commentare la prospettiva con un sorriso: «Allora siamo tranquilli: al massimo nel 2051 sono fuori».
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