Zac, cala la scure, più di trecento teste sono lì pronte a rotolare, tutti sul carro a far festa. Luigi Di Maio è il primo a metterci il cappello sopra, il Sì infatti nasconde il flop grillino alle amministrative e rilancia la sua leadership interna. «Un risultato storico. Ora riduciamo gli stipendi dei parlamentari, intanto andiamo avanti, il prossimo step dovrà essere l'approvazione di una legge elettorale proporzionale». E si brinda pure al Nazareno, pazienza se per tre volte il Pd aveva votato contro la riforma, il combinato disposto referendum-Regionali imbullona la sedia di Nicola Zingaretti. Il segretario era dato per bollito, ora passa all'incasso e sogna un cambio nei rapporti di forza nella maggioranza: «Siamo noi la forza del cambiamento, adesso si apra una stagione di riforme».
E Giuseppe Conte? Giorgia Meloni chiede elezioni anticipate: «Il Parlamento è delegittimato dal voto popolare». Eppure il premier appare abbastanza saldo. Certo, la riforma taglia-parlamentari, in teoria, dovrebbe essere un elemento di disturbo, di instabilità, perché il referendum ha almeno in parte depotenziato politicamente le Camere in carica, visto che 345 tra deputati e senatori prima o poi dovranno lasciare. Ma la messa in funzione della ghigliottina, che fissa a seicento il numero degli eletti, non sarà per oggi né per domani, e neanche per dopodomani. La procedura è lunga. Finito lo spoglio delle schede, il passaggio successivo sarà la proclamazione del risultato da parte della Corte di Cassazione, poi l'invio del verbale al Quirinale, dove Sergio Mattarella procederà alla promulgazione della legge. I nuovi articoli 56 e 57 della Costituzione si applicheranno alle prossime Politiche. Ecco: quando si vota?
Chissà. Prima, dovranno essere ridisegnati i collegi territoriali, un'operazione per la quale sono richiesti almeno sessanta giorni: un senatore rappresenta 188mila italiani, in futuro più di 300mila. E prima ancora, ritornerà sull'agenda la riforma elettorale, altra questione infinita. Il proporzionale faceva parte del patto fondativo dell'alleanza giallorossa ma tuttora divide la maggioranza. Come abbiamo visto, Di Maio ha già riproposto l'argomento e Zingaretti l'ha subito fatto suo, però l'accordo non è vicino. Il motivo del contendere è sempre lo stesso, la quota dello sbarramento. Tre per cento? Quattro? Cinque? La discussione durerà parecchio e, oltre all'emergenza Covid, si intreccerà con la questione del «cambio di passo» in vista del Recovery Fund. Servono progetti, piani di sviluppo, negoziati con l'Europa: non sembra il momento di suonare il tutti a casa, per la gioia di Conte. Saremo così arrivati al semestre bianco e tutti gli occhi verranno puntati sulla corsa al Quirinale.
Intanto salite a bordo, si cambia. Ma non subito e soprattutto non quello che doveva essere cambiato. Il taglio dei parlamentari non è una vera riforma costituzionale: si sega un architrave lasciando in piedi il resto della struttura. Non sarà di aiuto alle finanze pubbliche: ci si batte a Bruxelles per centinaia di miliardi di euro, mentre il risparmio netto previsto, secondo Carlo Cottarelli, sarà intorno ai 35 milioni. Non servirà a restituire alle Camere la centralità smarrita: meno deputati e senatori significa maggior potere di scelta delle segreterie di partito nella compilazione delle liste. Non avvicinerà la gente al Palazzo: la rappresentanza diminuirà in certe regioni fino al cinquanta per cento. L'unico risultato visibile è di immagine, l'aver dato in pasto un pezzo di Casta, quando sembrava che ci fosse bisogno di forbici e non di buon governo e buona politica.
Nel frattempo però è nato un altro partito, quello del No. Un partito trasversale, sotto traccia, più di sinistra che di destra come emerge dall'analisi delle schede - il No vince solo tra gli elettori Pd, renziani e Si - forte comunque del trenta per cento dei voti degli italiani che credono ancora nel valore delle istituzioni repubblicane e che non hanno seguito la marea ghigliottinatrice. Sulla carta l'esito della consultazione era scontato, la riforma era appoggiata dalle principali forze politiche del Paese, M5s, Pd, Lega, Fratelli d'Italia, e in quarta lettura era stata approvata con una maggioranza bulgara, superiore al 90%. Poi il No ha superato il 30, mettendo a nudo la distanza tra i sentimenti dei cittadini e i loro rappresentanti, un altro problema non risolto dalla riforma. Un popolo, come scrive Huffpost, «non rappresentato».
Soprattutto dalla sinistra, vista la posizione ufficiale del Pd.Sarebbe il primo partito. Si fosse mosso prima, avrebbe riaperto la partita del referendum. A avesse un leader, potrebbe aspirare a un incarico per Palazzo Chigi.
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