Nel giorno del suo settantesimo compleanno Vladimir Vladimirovic Putin, zar di tutte le Russie, anche quelle che non gli appartengono, riceve non uno ma tre «regalini» da Oslo, dove ieri è stato assegnato il Nobel per la Pace. E di premi gli accademici norvegesi ne hanno assegnati tre, ciascuno con un messaggio per l'autocrate di Mosca.
A ricevere il premio sono stati infatti: Ales Bialiatski, dissidente bielorusso che non è potuto essere presente alla cerimonia perché langue nelle lugubri carceri di Minsk per l'accusa di evasione fiscale, un evidente pretesto per perseguire la sua attività di oppositore del regime dell'amichetto di Putin, il presidente bielorusso Aleksandr Lukashemko; l'organizzazione non governativa russa Memorial, che dal 1989, mentre la perestroijka iniziava a minare il colosso sovietico, denuncia le violazioni dei diritti civili e per questo è stata messa fuori legge da Putin lo scorso 5 aprile; il Center for Civil Liberties di Kiev, una ong dedita alla documentazione dei crimini di guerra e che da qualche mese ha assai più lavoro.
Bialiatski, 60 anni, fondatore del centro per i diritti civili Viasna, è uno dei leader spirituali del movimento per i diritti civili che cerca di far sentire la sua flebile voce contro l'ottuso regime di Lukashenko, alleato numero uno di Putin. Per questo è stato condannato con accuse pretestuose e praticamente senza un regolare processo a sette anni di carcere che sta scontando «in un braccio speciale, in un seminterrato con poca luce, con grandi limitazioni all'accesso alla corrispondenza», come denunciato proprio da Viesna lo scorso settembre al Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Il rischio è che questo premio invece che favorirlo peggiori le sue condizioni e allontani la sua liberazione. «Preghiamo che questo premio non lo danneggi, ma speriamo che possa risollevargli il morale», dice la presidente del comitato norvegese dei Nobel Berit Reiss-Andersen.
Anche il premio a Memorial è uno schiaffone a Putin, intendendo premiare il coraggio delle voci ostinate e contrarie al regime del satrapo di San Pietroburgo. Memorial è un movimento fondato nel 1987 da attivisti per i diritti umani - tra cui il Nobel per la Pace 1975, Andrei Sakharov, e la sostenitrice dei diritti umani Svetlana Gannushkina - che federa decine di ong per lo più in Russia ma anche in altri Paesi (tra cui l'Italia). Ironia della storia, Memorial ieri, mentre scopriva di aver vinto il Nobel, si è vista sequestrare da un tribunale di Mosca i locali nell'ambito del processo che la vede accusata di agire come «agenti stranieri». Una notizia che fa temere una recrudescenza della repressione da parte del Cremlino delle voci libere. Libere come il Center for Civil Liberties ucraino, la cui presidente Olexandra Matviitchouk, ha ieri festeggiato proponendo «un tribunale internazionale e portare davanti alla giustizia Putin, Lukashenko e altri criminali di guerra».
Curioso che i tre governi dei tre premiati la prendano tutti male. Da Mosca parla Valery Fadeyev, copo del consiglio presidenziale sulla società civile e i diritti umani: «Il Nobel per la Pace ha cessato di essere, in primo luogo, un premio di un qualche significato e, in secondo luogo, ha cessato di essere un premio per la pace, ed è stato completamente screditato dalla decisione odierna». Da Minsk dice la sua il portavoce del ministero degli Esteri, Anatoly Glaz: «Negli ultimi anni, una serie di decisioni fondamentali del Comitato per il Nobel sono talmente politicizzate che, scusatemi, Alfred Nobel è tormentato e si rivolta nella tomba».
E da Kiev ecco Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky: «Il Comitato del Nobel ha una curiosa concezione della parola pace se i rappresentanti di due Paesi che hanno attaccato un terzo ricevono il premio per la pace insieme. Né le organizzazioni russe né quelle bielorusse sono state in grado di organizzare la resistenza alla guerra».
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