L'altro ieri 3,9 milioni di cubani hanno votato si in un referendum che ha ratificato il nuovo codice della famiglia che legalizza il matrimonio tra persone dello stesso sesso, consente alle coppie gay, lesbiche e trans di adottare bambini e apre all'utero in affitto, senza però che sia consentito «trarne profitti». Quasi 2 milioni di cubani si sono invece opposti. «Giustizia è stata fatta» ha scritto euforico in un tweet il presidente de facto Miguel Diaz-Canel, ringraziando il 74% degli 8,4 milioni di cubani aventi diritto al voto che ha partecipato al referendum. Il 26% è rimasto invece chiuso in casa, un'astensione senza precedenti nella storia del regime e da segnalare che per gli standard cubani, un no del 33% è molto ampio visto che i precedenti referendum avevano visto la volontà governativa ricevere approvazioni del 99%.
La Chiesa, attraverso un comunicato della Conferenza episcopale cubana, aveva invitato a votare no, pur sapendo che la vittoria del si era scontata. Il partito comunista ha in effetti usato tutti gli strumenti in suo possesso. In primis quello di bloccare, tramite la compagnia statale di tlc Etecsa, qualsiasi messaggio che invitasse a votare no. Nei giorni precedenti al referendum Etecsa ha infatti inserito nuove parole da censurare nei server preposti alla gestione dell'inoltro dei messaggi, oltre alle già esistenti «dittatura», «manifestazione», «VPN», «protesta» e «singao», l'equivalente dell'italiano coglione, soprannome dato da molti a Díaz-Canel. Su tutte censurate dunque le frasi «vota no» o «codice No», impossibili da diffondere.
Con questa riforma del codice della famiglia per alcuni la dittatura cubana avrebbe abbracciato l'ideologia di genere. È troppo presto per dirlo anche perché, a differenza dell'Argentina dove il kirchnerismo sta addirittura stravolgendo la grammatica della lingua spagnola inventando nomi neutri, il regime dell'Avana è ancora molto conservatore sul tema.
Di certo, grazie alla sessuologa Mariela Castro, la figlia di Raúl paladina dei diritti gay, molto è cambiato rispetto al 1965, quando Che Guevara vedendo la summa «Teatro Completo» del poeta e drammaturgo Virgilio Piñera, sbottò con il suo ambasciatore ad Algeri: «Come puoi tenere il libro di questo finocchio nella nostra sede diplomatica?». L'episodio, raccontato dal compianto Guillermo Cabrera Infante nel suo Mi Cuba, dà un'idea dell'odio viscerale del regime castrista degli inizi verso i gay. Non a caso, appena un anno dopo la presa del potere, nel 1960, lo stesso Che Guevara istituì il primo campo di lavori forzati a Cuba per omosessuali, nella regione orientale di Guanahacabibes, all'entrata del quale c'era scritto «Il lavoro vi renderà uomini». E lì, come lo stesso Guevara spiegò nel 1962, «ci mandiamo chi ha commesso peccati contro la morale rivoluzionaria». Ovvero gay, trans e lesbiche «che non rientravano nel modello dell'uomo nuovo proposto dal Che, uno dei più convinti leader omofobici dell'epoca» scrive Emilio Bejel nel suo bel saggio Gay Cuban Nation.
Fidel ribattezzò questi campi di concentramento UMAP, cioè Unità Militari di Supporto alla Produzione ma, in realtà, altro non erano che i lager del regime contro i gay. Per fortuna chiusi nel 1968, per le pressioni internazionali dei compagni, molti dei quali italiani.
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